martedì 11 novembre 2008

La signorina a colori n°20

Ecco la mia versione de "La signorina a colori", pubblicata fra le 24 signorine finaliste nell'e-book scaricabile dal seguente link:
http://viadellebelledonne.files.wordpress.com/2008/11/volume.pdf

Quando comincia una storia? In genere dall’inizio. A volte, però, è la fine di una storia che ne fa cominciare un’altra. Così ci sono due categorie di storie, quelle che cominciano dall’inizio e quelle che cominciano dalla fine. Ci sono due categorie di donne, quelle che raccontano la loro storia e quelle che non la raccontano, poi ce n’è una terza, quelle che non la raccontano giusta.
Io la racconto sempre giusta, cominciando sempre dalla fine, ordinatamente, eppure nessuno mi crede. Capita che io racconti la mia storia a qualcuno che si siede accanto a me sulla panchina del viale, oppure sull’autobus, oppure al tavolino di un bar. Mi ascoltano, quasi mai fino alla fine e mentre parlo, leggo incredulità nei loro occhi e a volte anche pena e compassione.
Oggi, in questa splendida mattina d’inizio autunno, racconto la mia storia a Sara, una ragazza seduta accanto a me al tavolino di questo elegante bar, che adoro per il verde pallido e il malva del suo arredo.
“Sono morta il 14 ottobre del 1943…”
La ragazza d’un tratto smette di sorseggiare il suo the e, dopo aver posato la tazza sul tavolino, si ferma di colpo, mi osserva con sospetto e si guarda intorno come per cercare aiuto.
“Morta? Vorrà dire nata !” – Sara reagisce con evidente imbarazzo.
“No,morta… in una mattina come questa…soleggiata e fresca “
“Ok. Chi è lei? Una scrittrice? Lavora di fantasia vero? Ok…c’era la guerra in quel periodo, ha voglia di parlarmi di questo? Molti anziani ne sentono il bisogno, anche mia nonna lo fa spesso…E’ morta sotto il famoso bombardamento sulla città?”- la ragazza mi piace, non mi crede ma regge il gioco.
“Nessun bombardamento. Sono morta perché una folata di vento mi ha fatto cadere questo bellissimo cappellino di feltro rosa sui binari del tram e io, per raccoglierlo, sono finita sotto…Vedi? Ho ancora i segni sul cappotto e manca un bottone rosso, proprio qui…Per fortuna il cappellino si è solo un pò schiacciato e la veletta si è strappata solo per pochi centimetri …Mi è andata bene!”
“Ho capito. Come si chiama signora?”- ora la ragazza sorride, sembra divertirsi. Che ci sarà di tanto divertente nel mio racconto? Sto dicendo che sono morta schiacciata sotto un tram e questa sciocchina ride.
“ Signorina, prego…sono la signorina Giustina Colarusso, sartina e modista d’alta moda ” – ci tengo a dire che mestiere facevo, perché se è vero che l’abito non fa il monaco è pure vero che nel mio caso la mia classe e la mia eleganza raccontano di me più di mille parole. Dalla mia borsettina nera estraggo uno specchietto e un rossetto rosso acceso, dello stesso colore della mia sciarpina di seta pura e mi ritocco le labbra delicatamente. Il tempo passa ma io non invecchio mai, solo il mio incarnato si fa sempre più pallido e diafano e io devo calcare sempre di più la mano col trucco, ombreggiandomi le palpebre d’azzurro e imbellettandomi le gote di cipria rosa.
“ Senta signorina Giustina, mi scusi se glielo chiedo : ha bisogno d’aiuto? Vuole che la riaccompagni a casa? Se mi dice dove abita lo farò molto volentieri, senza problemi…”
Che peccato, anche questa giovinetta pensa che io non la racconti giusta. Anche oggi la storia della mia vita si è fermata alla fine e se andiamo avanti così non riuscirò mai a raccontarla tutta. Che peccato. Pazienza, ho ancora tanto tempo per cercare un buon interlocutore, ho tutta la vita dietro!
Mi alzo lentamente ed elegantemente esco dal locale. E’ una splendida giornata autunnale e voglio godermi gli ultimi raggi di sole prima del prossimo lungo inverno.
Prima di allontanarmi sul viale ricoperto di foglie scricchiolanti, getto un ultimo sguardo alla ragazza nella sala da the: di sicuro lei non era la persona giusta con cui dialogare…Strana ragazza, forse un pò pazza…sta parlando con la rosa rossa nel vaso sul tavolino verde pallido.

Sara Ferraglia

lunedì 27 ottobre 2008

La signorina a colori


Su Viadellebelledonne è in corso una simpatica sfida a suon di racconti, che devono partire tutti da un incipit ben preciso.
Sto partecipando anch'io e tutto si svolgerà nel più assoluto anonimato fino alla votazione finale, dopo la pubblicazione del racconto n° 24.

Per chi volesse divertirsi a leggerne qualcuno e, magari, cercare di indovinare qual'è il mio, questo è il link :

http://viadellebelledonne.wordpress.com/

Buona lettura a tutti

giovedì 24 aprile 2008

Noi vogliam Dio

L’edificio un tempo era un monastero. I lunghi corridoi che si affacciavano sul chiostro quadrato ne conservavano l’austerità.
Mura antiche, aule antiche e professori antichi, in particolare due, quello di chimica e quella di matematica.
Il professore di chimica era un vecchio magrissimo e pallido dal lungo naso adunco e dal volto scavato.
Lo sguardo era gelido e quando eri lì alla cattedra per essere interrogata, specialmente se non capivi niente di chimica come me, ogni sua occhiata era una stilettata di ghiaccio puro.
Portava da anni lo stesso cappottone marrone e la stessa sciarpa che, appena entrato in aula, ogni mattina, faticosamente si toglieva ed appendeva all’attaccapanni, antico pure lui. Guardava noi “signorine” ci diceva buongiorno senza mai un sorriso e con passo lento e ciondolante si accomodava lentamente, sistemando sotto la cattedra la sua cartella di pelle logora e stinta.
Per lui tutto era andato avanti così per anni, come un rito sacro che non si poteva spezzare, fino al giorno in cui in quella classe seconda B arrivò Chiara.
A dispetto del nome, lei non era affatto “chiara”, a causa di uno spesso strato di fondotinta scurissimo che aveva sempre sul viso, metodicamente spalmato fin sotto il mento, in modo tale che il collo, invece, spiccava candido fra i colletti delle sue camicette.
Il nome Chiara fa pensare ad una dolce e delicata creatura, quasi angelica. Questa Chiara, invece, era una ragazzona altissima e notevolmente sovvrappeso dai lunghi capelli, che portava sempre arruffati e spettinati. Il trucco, come già ho accennato, era pesantissimo e non solo per colpa del fondotinta ; usava la matita nera sugli occhi così marcatamente che in confronto Cleopatra aveva un trucco discreto e sulle palpebre stendeva circa un etto di ombretto turchese. Indossava sempre minigonne cortissime che le scoprivano le cosce diciamo… un pò cicciottelle e camicette scollatissime sempre molto aperte sul davanti così da mettere ben in mostra un seno forse da sesta taglia.
A tutto questo dobbiamo aggiungere certi suoi atteggiamenti non proprio da “signorina“ come invece esigevano in quella scuola, risate sguaiate, parole che se le ripetessi qui verrei censurata, amichevoli pacche sulle spalle che ti facevano tossire per un’ora abbondante…Chiara, la personificazione del male, secondo certe compagne e certi professori.
Chiara la ribelle secondo certe altre compagne e certi altri professori già in odore di imminenti arie sessantottine.
Chiara quell’anno provocò in quella classe delle vere e proprie scosse telluriche. La prima fu quando il professore di chimica entrando con la stessa flemma di sempre e vedendola correre verso di lui, quasi come per travolgerlo fece due traballanti passi indietro:
“ Mah…insomma! Signorina cosa fa? ”
E lei, sfoderando un sorriso che a lui parve angelico e a noi tutte mefistofelico:
“ Permette che l’aiuti a togliere il cappotto professore?”
Lui fermo, immobile per interminabili secondi, Chiara col sorriso stampato in faccia, la classe in trepidante attesa di una glaciale reazione…e invece su quel viso incartapecorito si fece strada una smorfia, un movimento delle labbra che sembrava un sorriso.
Chiara lo interpretò così e gli tolse cappotto e sciarpa e, prendendolo sottobraccio, lo accompagnò alla cattedra e lui la seguì docile come un agnellino e con lo sguardo da pesce lesso.
E così quel giorno il gelido professore interruppe il suo gelido rito e qualcuno addirittura venne a sapere, da voci di corridoio, che lui non vedeva l’ora di far lezione in seconda B.
La professoressa di matematica era molto anziana, o forse dimostrava più degli anni che aveva per il suo modo di vestire, quasi da suora e per i suoi atteggiamenti davvero fuori dal tempo.
Piccolina di statura, gobba, sempre vestita di nero, capelli bianchi raccolti a crocchia sulla nuca, una pesante croce d’argento sul petto, era una caricatura vivente.
Entrava in classe, sempre seria ed austera e prima di sedersi in cattedra percorreva a svelti passettini tutto il perimetro dell’aula, invitando “lor signorine” a star sedute composte e a tirarsi le gonne sulle ginocchia per coprirle il più possibile.
Quando, durante la lezione, qualcuna di noi si alzava per chiederle il permesso di uscire, se indossava la minigonna, cosa molto probabile, dato che erano i primi anni settanta, provocava nella professoressa di matematica reazioni simili a un boccone che va di traverso; interrompeva la frase, diventava paonazza, si alzava in piedi, si copriva tutto il viso con le mani per non vedere :
“ Signorina si vergogni! Vergogna! Si copra…esca, esca ...fuori subito..!” poi tornava a sedersi stravolta e col respiro affannoso per ancora dieci minuti.
Ora, immaginate una come Chiara, alle prese con questo esemplare d’insegnante.
Le minigonne di Chiara erano le più corte di tutto l’istituto e facevano impazzire la povera donna.
La sua disperazione un giorno arrivò ad un punto insostenibile. Interruppe la lezione e si rivolse alla classe con le lacrime agli occhi:
“Signorine, ma voi non sapete cos’è la decenza. Voi dovreste venire a scuola tutte col grembiule nero e il colletto bianco, non così…così…scostumate. Voi dovete coprirvi le gambe, tenere un portamento da signorine…non così, io non ne posso più…ma insomma cosa devo fare? Signore santo, sant’Iddio ma cosa volete?”
A quel punto, dall’ultima fila di sedie in fondo all’aula si sentì un rumore assordante.
Sei ragazze si alzarono in piedi tutte insieme, Chiara nel centro. Girarono le spalle alla classe e all’insegnante, le braccia e lo sguardo in alto sulla parete, dove stava un antico affresco raffigurante una candida Madonna e un coro si levò:
Chiara: “Volete le rosse?”
Le altre: “ Nooooooooooo!”
“Volete le more?”
“Nooooooooooooo!”
“Volete le bionde ?”
“ Nooooooooooooo!”
Chiara: “ E allora cosa volete?”
Le sei ragazze tutte insieme:

“ Noi vogliam Dio Vergin Maria,
leva lo sguardo ai nostri cuor,
noi t’invochiamo o madre pia
dei nostri cuori colma il desir
dè benedici o madre al grido della fè
noi vogliam Dio che è nostro padre,
noi vogliam Dio che è nostro re…!

Si sentì un tonfo sordo alla cattedra. La povera professoressa di matematica era svenuta.
Chiara e le altre subirono una sospensione di una settimana.
Il professore di chimica, invece, finchè non tornò Chiara, tenne le sue lezioni col cappottone
addosso.

venerdì 21 marzo 2008

Due anime color seppia

Due anime color seppia

Quella mattina di un grigio fine gennaio dell’anno 2002 le anime color seppia di Alfredo e di Chiara si svegliarono infreddolite. Brividi violenti scuotevano la loro diafana essenza come non era mai accaduto prima d’allora.
Era passato tanto tempo da quando si erano addormentati nel lontano 1901, a pochi mesi l’uno dall’altra.
Per prima era partita l’anima di Chiara, in una limpida notte di febbraio e lei, salendo nel cielo stellato sopra la campagna emiliana, vedeva allontanarsi un campo candido di neve ghiacciata, dove si rifletteva la luce della luna, tanto che sembrava punteggiato da migliaia di lucciole.
Guardando in alto, oltre le nuvole, Chiara riusciva ad intravedere qualcosa che la precedeva di poco, una forma scura, capelli e barba candidi di un volto noto, che cantava il “Và pensiero”.
“Mò vè che lavoro! Ma che sia “il maestro”? E’ morto il 21 gennaio ed è ancora qui ! ”
Era davvero l’anima di Verdi che stentava a prendere quota, perché da laggiù, troppi la rimpiangevano e la evocavano ancora, e le facevano da pesante zavorra.
Anche Chiara per un attimo fu affascinata da quell’inattesa presenza che si fece sempre più vicina.
“ Del Giorda…nooo le ri…veee saluuta, di Sionne le to…oorri atterrate…” intonò timidamente quando gli fu al fianco e allora vide l’anima del Maestro contorcersi, terribilmente infastidita da quella “villica” che “cotanto ardìa” con quel suo canto stonato.
Delusa se lo lasciò alle spalle cercando di percepire, ovattato e sempre più affievolito, il pianto del suo Alfredo, che mungeva la Mora, la loro vacca più bella, seduto su uno sgabello di legno nella stalla.
Alfredo singhiozzava scuotendo la testa e il latte scendeva a fiotti caldi nel secchio, insieme a qualche lacrima, poi si fermava e guardava nel vuoto e un colpo di coda della Mora lo invitava a continuare la mungitura; voleva essere nello stesso tempo un invito e una carezza consolatoria quel violento colpo di coda e Alfredo riprendeva a mungere e a singhiozzare scuotendo la testa.
“ Mò dai, Alfredo, smettila di piangere e lavora che a minuti passa il casaro e tu non hai riempito neanche un secchio!”- brontolava Chiara mentre si allontanava e ancora non aveva perso il senso pratico dell’anima contadina.
Intorno alla loro piccola casa, solo campi innevati e alberi spogli nei frutteti e poi, più in là, la stalla e la casa di Severino ( detto Rino ) e della Cleonice ( detta Nice ), ai quali Chiara mandò un bacio, convinta di aver ancora una mano e una bocca.
Un bacio vero e proprio non arrivò mai a destinazione ma, in quel preciso istante, una fogliolina ormai secca del rametto d’ulivo appeso sopra la testata del letto, si staccò e si posò delicatamente sulla guancia della Nice.
Arrivata lassù Chiara si sdraiò e chiuse gli occhi aspettando Alfredo, che partì in ottobre e durante il suo viaggio vide i cesti gonfi di moscato dorato e Rino e la Nice che si preparavano per la pigiatura dell’uva. Lui era già a piedi nudi nel tino mentre lei si sistemava le vesti intorno ai fianchi per non sporcarle di mosto.
“Vè, Rino, ti sei lavato bene i piedi? “ e gli sorrideva maliziosa.
Rino le rispose cantando un ritornello antico:
“Filar non vol filar, cusir non la sa far el sol de la campagna, la dis che ghe fa mal.
Dirindin din, dirindin din, “

Forte e irresistibile quell'odore dell'uva saliva, saliva, stordiva e incantava.
Anche Alfredo, come Chiara, era convinto di aver ancora un braccio e una bocca quando si allungò il più possibile chiedendo agli amici un buon bicchiere di bianchetto profumato; la sua richiesta non giunse alle loro orecchie ma di certo si sa che loro andarono raccontando per molti anni a venire che una volta, durante una pigiatura del moscato, il mosto all’improvviso cominciò a bollire sotto i loro piedi, come se fosse sopra il fuoco.
Alfredo invece capì di essere diventato un’altra cosa e si sdraiò al fianco della sua Chiara e anche lui si addormentò, fino a quell'insolita mattina di fine gennaio 2002.
Laggiù, in quella che era stata la loro camera da letto, troneggianti dalla parete sopra al camino, erano rimasti i loro sguardi cupi, immortalati in un ritratto color seppia dalla cornice ovale.
Lassù, invece, per molti anni, essi avevano riposato uno di fianco all’altra nel silenzio e nella tranquillità, senza mai sentire la necessità di abbandonare la loro posizione orizzontale e fluttuante per dare uno sguardo sotto di loro ma quella mattina di gennaio qualcosa era cambiato.
Li aveva svegliati quel freddo insopportabile e si accorsero terrorizzati di come fosse improvvisamente difficile mantenersi in equilibrio, perché, a tratti una forza misteriosa li spingeva, li schiacciava, come un vento bizzarro e loro, povere anime color seppia, erano sbalzate di qua e di là, passando dall’abituale posizione orizzontale a quella verticale e poi sottosopra e poi di nuovo orizzontali, come due aquiloni impazziti. In quell’insolito turbinio i folti baffi all’insù di Alfredo si attorcigliarono come quelli di Don Chisciotte; i capelli di Chiara, da tempo immemore raccolti a crocchia sulla nuca, si scompigliarono disponendosi a ventaglio intorno a lei.
Sul portellone laterale del furgone parcheggiato nel cortile della casa spiccava, in una bella tinta fosforescente, la scritta: “Raimondo, lo sgombero solai più veloce del mondo”.
Due operai da qualche ora stavano svuotando le stanze di quella vecchia casa disabitata da anni:
“ Ci vuole del coraggio a comprare una roba così! Guarda qui, il tetto cade a pezzi!” commentava uno di loro.
E l’altro:
“ Adesso è di moda ristrutturare questi rustici; piuttosto sai cosa ti dico? Non capisco perché i nuovi proprietari vogliano buttare tutto quello che c’era qua dentro…ad esempio, guarda questa fotografia…magari era un bel ricordo per qualcuno” e staccò dal muro le due povere anime color seppia che, in quell’istante si svegliarono in quel modo tremendo che già conosciamo.
Nella stanza la temperatura crollò improvvisamente di cinque gradi e un vento siberiano fece sbattere porte e finestre :
“ Ma cosa sta succedendo? Senti che freddo…Dai, finiamo un pò in fretta altrimenti moriremo assiderati!”- e l’uomo gettò sul furgone il ritratto, il cui vetro si frantumò in mille pezzi; nel gelido silenzio di quella stanza il suo cellulare cominciò a squillare sulle note del “Và pensiero”.
“ Hai cambiato la suoneria? Ti sei convertito alla lirica adesso?”- gli chiese il collega.
“ Ma guarda che strano, io non cambio suoneria da anni! Lo sai che ho quella roba là…dai, come si chiama…la Macarena !”
Estrasse il telefono dal taschino e si apprestò a rispondere, guardando il display che lampeggiava a intermittenza e la cui luce, anziché essere verde come sempre, era di un delicato color seppia; dopo qualche istante il fastidioso lampeggìo cessò e a poco a poco si delineò un’immagine, prima sfocata e poi sempre più nitida e il volto dell’operaio assunse un’aria così terrificante che anche l’altro uomo, preoccupato, si avvicinò per capire cosa gli stesse accadendo.
Quello che videro sul display non lo avrebbero mai più dimenticato: i due sposi del ritratto color seppia li stavano guardando sorridenti e un pò spettinati; l’uomo, il burbero Alfredo si attorcigliava un baffo intorno al dito e la donna, la tenera Chiara, con la mano mandò loro un bacio, che si posò lieve come una piuma sul viso di entrambi.
I due uomini, pallidi come la luna, si guardarono allibiti e ciascuno vide il volto dell’altro alterato dall’incredulità e dalla paura; rimasero così, immobili come due statue di cera, per un buon quarto d’ora.
Intanto una voce dal cellulare tuonava:
“ Ben mò allora! Siete rimbambiti? Cosa state facendo? Rispondete sì o no? Boia di un mondo ladro…se vi piace scherzare questo non è il momento! Ci sono ancora tre sgomberi urgenti da fare, imbecilli !” – era il titolare, il signor Raimondo, al quale, da quel giorno vennero forti dubbi sul fatto che il suo servizio fosse il più veloce del mondo.

( Sara Ferraglia)

venerdì 14 marzo 2008

La magia di Amin

La magia di Amin.

Avevo traslocato da pochi mesi nella casa nuova.
Fra i mobili che avevo appena acquistato c’erano due divani che non volevo rovinare subito.
Avevo bisogno al più presto di due teli per coprirli ma li volevo strani, particolari e soprattutto molto colorati.
Da sempre mi muovevo in lungo e in largo per la città con la mia vecchia bicicletta perché fa bene alla salute, perché è comoda e perché allarga gli orizzonti.
In che senso? Nel senso che se ti muovi in auto devi badare alla strada, devi arrabbiarti in continuazione per le code che ti tocca sopportare e non puoi nemmeno guardarti intorno.
Se viaggi in autobus è vero che hai più tempo di osservare le persone, di ascoltare, anche di perderti nei tuoi pensieri con lo sguardo fuori dal finestrino ma poi, dopo un pò ti annoi a morte perché il percorso e le persone sono sempre le stesse.
La bicicletta invece va dove ti porta il cuore, per essere sentimentali come quella famosa scrittrice dai capelli corti, oppure va dove ti portano le tue gambe, per dirla in modo molto più terra a terra, oppure va dove ti porta la tua anima , per dirla a modo mio e mentre pedali puoi decidere di cambiare strada all’improvviso, solo perché passare da quel borghetto antico ti piace.
E io faccio spesso così. Ci sono angoli della città dove sento il bisogno di sostare almeno una volta la settimana e la mia bici mi accompagna sempre molto volentieri e soprattutto mi aspetta per tutto il tempo di cui ho bisogno.
Uno di questi “angoli” è la strada che porta alla piazza del Duomo e del Battistero, due piccoli gioielli rosa di questa piccola città.
In quella via c’è un’antica libreria che mi piace perché ha il pavimento di lunghe assi scricchiolanti che quando cammini creano, insieme all’odore di cera e di carta, un’atmosfera che trovo solo lì dentro. Il sottofondo musicale purtroppo c’è ma è molto discreto e ti accompagna con dolcezza nelle tue scelte ( è lì che ho sentito per la prima volta la magica chitarra di Pat Metheny e me ne sono innamorata).
Anche quel giorno che cercavo i teli per i miei divani, mi ero fermata in quella via ed ero entrata in quella libreria , solo pochi minuti , per il piacere di stare in mezzo ai libri.
Guardo l’orologio. Accidenti! Tardissimo! Esco a passo sostenuto e con lo sguardo basso, troppo basso e così sul marciapiede mi ritrovo maldestramente addosso a una persona.
“ Ops…mi scusi” - e guardo chi è.
È un ragazzo di colore con un bellissimo abito lungo, sfondo giallo e disegni tribali neri, esattamente come vorrei i miei copridivani, penso per un attimo.
“ Vuoi comprare questo portafortuna?” – e mi mostra un sassolino scuro che io guardo perplessa.
“ No, davvero, scusami ma ho una fretta tremenda”
“ Guarda. Aspetta …di che segno sei”?
Ahi, ahi…mi ha toccato nel mio punto debole! Se mi parli di segni zodiacali facciamo notte!
“ Sono dell’ariete, perché ”?
“ Perché allora devi comprare questa pietra” – e ripone il sassolino nero, estraendo da una tasca una pietra rossa che a me sembra di comunissima plastica.
Non ne ricordo il nome e non è nemmeno importante, perché quello che conta è che mi sono fermata lì con questo ragazzo anziché scappare via.
Lui mi parla della buona sorte, della magia che viene dal cuore, delle pietre che non sono oggetti morti e freddi ma vivono e ci danno forza,insomma tutto un misto di teorie new-age , yoga e tutto quanto va di moda in questi anni.
“Senti, io devo proprio andare adesso perché devo cercare dei copridivani e fra mezz’ora i negozi chiuderanno, capisci”?
“Io capisco. Mio fratello Amin ha i copridivani che piace a te. Ti porto”.
“ E va bene, dai, dov’è il negozio? Lontano? ”
“ No, qui dietro” – e giriamo l’angolo .
Intanto lui parla, parla, racconta che viene dal Senegal, che si chiama Kader, che laggiù ha due bambini e che appena avrà i soldi e una bella casa tornerà a prenderli e li porterà a vivere qui.
Mi vergogno mentre penso che non mi interessa la sua vita, che queste persone hanno storie un po’ tutte uguali e che forse mi sta dicendo un sacco di balle ma poi penso che è molto più facile essere tutti uguali nella miseria che nella ricchezza.
Lui continua a parlare e io sono un po’ nervosa perchè ho fretta, perché non volevo fermarmi con lui, perché chissà dov’è questo Amin e se davvero è suo fratello….perché sono nervosa e basta.
Per fortuna arriviamo in una via affollatissima e ci fermiamo davanti a un negozio, ”La magia di Amin” si chiama. Accidenti….la magia? Ma che è sto posto?? Se fossi un po’ superstiziosa, quella storia dei segni zodiacali, del portafortuna…ecco...adesso non entrerei ma non la sono ed entriamo. C’è nell’aria un profumo dolcissimo e un po’ nauseante.Anche qui c’è un sottofondo musicale discreto, percussioni e suoni africani, immagino.
Mi guardo intorno e vedo un posto pieno di colore, solo colore è quello che percepisco in un primo momento .E allegria e cordialità e voglia di danzare, di muoverti al ritmo di questa musica irresistibilmente calda.
Lo paragono per un attimo al negozio dove sono entrata ieri. Commessa pallida, biondina gelida che mi mostra degli anonimi teli a fiorellini alla bellezza di 75 Euro l’uno!! E poi nemmeno mi piacevano. E lei , alla fine era anche un po’ infastidita per il fatto che non mi erano piaciuti.
Qui invece si sta bene.
Kader si sporge un po’ verso l’alto e urla:
“Amin……”- segue una lunga sequenza di suoni e un colorito accostamento di sillabe che formano parole assolutamente incomprensibili per me.
Da una scala a chiocciola scende Amin.
Capelli ricci e biondi sul viso ovviamente scurissimo! Un pugno in un occhio, che vuol dire, un accostamento che stride da morire!
“Ciao. Tu vuoi teli colorati per i tuoi divani?” e sfodera un sorriso di quelli che hanno loro con quei denti bianchissimi.
“Sì, hai qualcosa da farmi vedere?” - mi sento un po’ strana, un leggero mal di testa, un senso di nausea, che sia questo profumo??
“Guarda questo che bello! E questo…e ancora questo…..40 euro soltanto”.
Sono circondata dai teli colorati! Me li sta stendendo ai piedi come a una regina, me li appoggia sulle spalle, ne mette uno sulle sue come un mantello e non finisce mai di mostrarmene, come se li estrasse dal magico cilindro di prestigatore.
Ma qui il trucco non c’è…forse…e mi gira la testa ancora di più…
Sono immersa nel colore, nel suono e nel profumo dell’Africa…
Eccolo.Lo vedo il telo uguale al vestito del fratello di Amin e cerco di uscire da questo strano torpore.
“Scusami, questo…questo mi piace molto…fai vedere…che misura ha?”
È perfetto per me, è quello che cercavo.Sì ne prendo due uguli. Ecco li pago. Ho fretta…tanta fretta, vorrei uscire da qui…
Amin prende una borsina di plastica bianca e mi allunga il mio prezioso pacchettino.Saluto entrambi e loro mi danno la mano. Quanta cortesia per soli 80 euro! Esco contenta, davvero, mi piacciono i teli e poi qui fuori respiro meglio e tutto quel nervosismo mi è passato. Sono rilassata e fischietto mentre torno verso la mia bicicletta, là nel borghetto che porta al Duomo e al Battistero,davanti alla vecchia libreria.
Cammino in fretta ma questa volta il mio passo è ritmato non dal nervosisimo ma dalla leggerezza d’animo. Ho sempre lo sguardo basso e…ops…..ancora una volta mi ritrovo addosso a una persona…
“Scusi…non l’avevo vista” e la guardo e mi cade la borsina di plastica con dentro i miei teli.
È una vecchietta elegantissima, con tanto di cappellino e di veletta che mi fa pensare alla nonnina di Gatto Silvestro, solo che questa non è gentile ed educata e comincia a gridare con una vocina antipatica e stridula :
“Ma stia attenta a dove cammina, non vede? Mi ha pestato un piede, accidenti a lei!Ma che cafona e poi smettetela tutti di stare qui sui marciapiedi a vendere queste schifezze, andate a lavorare seriamente, piuttosto! Oppure é ancor meglio se ve ne tornate tutti a casa! ”
Ma che dice questa? Mi giro per vedere con chi parla, forse con Kader, di certo non con me.
E mentre mi chino per raccogliere la mia borsina mi vedo i piedi….neri che calzano le ciabattine di corda come quelle di Amin e poi lo sguardo sale.
Il mio vestito è lungo, colorato coi disegni tribali, come i teli del negozio.
Mi tocco i capelli…treccine fitte fitte sul mio capo!
Mi avvicino alla vetrina della libreria e quello che vedo riflesso è un ragazzo nero.
Vedo Kader…ma sono io, sono bianca, abito in questa città. Che succede? Questo profumo mi stordisce di nuovo! Questa musica mi martella le tempie…eppure dentro sono leggera, sono contenta…ho appena comprato quei teli colorati che mi piacciono tanto….ecco, sono qui nella borsa…
Apro la borsina di plastica, metto dentro una mano e la tiro fuori piano, piena di sassolini colorati e l’allungo verso la signora isterica.
“Vuoi comprare porta fortuna?”

( Sara Ferraglia)

martedì 11 marzo 2008

Non si maltrattano così le signore



Ripropongo oggi un racconto che scrissi anni fa e che, nel frattempo, è comparso

su Viadellebelledonne : http://viadellebelledonne.wordpress.com/?s=non+si+maltrattano+cos%C3%AC+le+signore

su Blogolonelbuio : http://blogolonelbuio.blogspot.com/2011/01/racconto-non-si-maltrattano-cosi-le.html



( Donna allo specchio - Picasso )
Non si maltrattano così le signore.


Mi sono accomodata sulla poltrona del parrucchiere. Poca gente, musica new-age e volume un po’ troppo alto.
“ Arrivo subito da te “ Luca, uno dei ragazzi che lavora lì, rigorosamente vestito tutto di nero, si affaccia dall’altra stanza per poi sparire di nuovo.
Rimango sola davanti ad uno specchio immenso e crudele.
Molti anni fa mi piaceva guardarmi, sciogliere i miei capelli neri, lunghi e lisci nell’attesa che arrivasse chi doveva prendersi cura di loro e poi spostarli tutti sulla spalla reclinando il capo, con un gesto lento, studiato, lezioso e guardarmi nello specchio, fissarmi negli occhi scuri, grandi e accesi. Accadeva molti anni fa. Ora lo specchio è crudele perché non mi concede nulla. Non ho più capelli neri da sciogliere, perché da qualche tempo li porto corti, con la scusa che meglio si adattano alla mia personalità; in realtà lo faccio perché sono pratici, li posso lavare ogni mattina sotto la doccia e con le sole mani in pochi minuti li posso acconciare. E poi il capello lungo ad una certa età fa “dietro trofeo, davanti museo”. E poi il capello lungo ha bisogno di cura e attenzioni che solo un parrucchiere può dare, altrimenti si spezzano, si formano le doppie punte…E poi, e poi, accidenti, chi se ne frega del perché ho i capelli corti! Sono tutte elucubrazioni mentali che vogliono solo esorcizzare il tempo e la paura di vedere riflesse in questo specchio le tracce che questo mostro ha lasciato sul viso, sul collo, sui capelli.
“ Eccomi. Ciao, come stai?” dice Luca che con un balzo è tornato dietro le mie spalle.
In realtà non gliene frega niente di come sto io e quindi freddamente rispondo:
“Ciao a te, cosa facciamo coi miei capelli?”
“Dimmi tu, cosa vuoi?”
Un’altra cosa che da un pò di anni faccio fatica ad accettare (credo più o meno da cinque anni o giù di lì ) è questa facilità che hanno i giovani di darti del tu. Una mia amica dice che a lei piace perché la fa sentire a suo agio, invece a me fa sentire fuori posto.
Mi tocco i capelli, li giro e li rigiro fra le dita e poi decido:
“Taglia. Un bel corto tutto sfilatino.”
Luca canticchia e prende da un cassetto una mantella nera così non mi si appiccicheranno tutti i capelli sui vestiti.
Sbandierando come un toreador mi avvolge in quella nuvola sintetica e chiude il tutto stringendo il laccetto di velcron sulla mia nuca.
A quel punto il mio collo subisce una rapida trasformazione e la pelle si raggrinza, si affloscia, si piega e io mi sento un visitor, un E-t appena sbarcato su madre terra!
“Scusami, ho forse stretto troppo?”
“ Un pochino!” gli rispondo col volto paonazzo.
Luca allenta il laccetto e il mio collo si distende di nuovo e torna alla normalità come pure il mio colorito e il ragazzo, sempre canticchiando inizia a tagliuzzare qui e là sulla mia testa.
Continuo a guardarmi nello specchio, che mi sembra sempre più grande e sono rigida come un baccalà, con tutti i muscoli del mio corpo in massima tensione.
Una volta, credo circa dieci anni fa o giù di lì, (incredibile come, ultimamente, mi venga naturale e urgente quantificare il tempo) mi capitava raramente di non sentirmi a mio agio in qualsiasi situazione mi trovassi mentre ora, ogni tanto, divento Dottor Jackil o Mr.Hide e subisco queste strane metamorfosi.
La porta a vetri del negozio si apre e insieme ad una folata di gelo entra qualcuno.
“Ciao caro, come stai? Hai tempo per me che ho un po’ fretta? Come mi trovi? “ la voce un po’svenevole precede di qualche istante l’immagine di una stupenda ragazza che ora si riflette nello specchio divenuto, per l’occasione, improvvisamente benevolo.
Mi chiedo come farà Luca a rispondere contemporaneamente a tre domande precise e a mettersi subito a sua disposizione poiché sta lavorando sulla mia testa.
Lui prima con quella strizzatine di velcron ha messo a disagio me e quindi ora aspetto di vedere il suo imbarazzo nel dovermi mollare su due piedi! Eh sì ragazzino, qui ti voglio!
“ Ciao bellissima, bene grazie e tu? Ma certo, sarò da te fra pochi minuti e ti trovo splendidamente in forma “ si gira verso la scala e chiama Anna, pregandola di venire subito a sostituirlo.
Mi sorride, si allontana camminando a ritroso e intanto mi dice:
“Scusa sai. Io qui ho finito e ti asciugherà Anna. Non ti dispiace vero? Grazie.”
Ecco come ha fatto. E se l’è cavata anche bene. Sarà grazie all’esperienza o sarà per quella massa di riccioli rossi e quella fila di denti bianchissimi che gli stanno davanti?
Non ho nemmeno il tempo di rispondere che lui è già sparito nella stanza accanto seguito da una fresca e svolazzante scia di profumo.
Torno a girarmi verso lo specchio, sempre più rigida, sempre più baccalà e intanto alle mie spalle arriva Anna, che, un po’ infastidita mi saluta con un secco “buongiorno” e una veloce strizzatina di velcron, così mi trasformo di nuovo, prima in E-T e subito dopo in Mr.Hide.
Sento il mio volto farsi di nuovo paonazzo e i battiti cardiaci accelerare come impazziti.
“ Senti ragazzina, allenta subito questo laccio che mi stai strangolando “- le dico con una voce quasi gutturale, che suona nuova anche alle mie orecchie – e poi corri di là e dì a Luca che gli devo parlare immediatamente, capito? Vai!!!”
Mi strappo via il mantello da toreador, mi alzo in piedi di scatto pregustandomi il momento di gloria che avrò quando mi troverò davanti quello stronzetto di Luca…Gliele canterò in rima, gli dirò quanto è stato maleducato e che non mi vedrà più nel suo negozio e gli dirò anche che mi dava tremendamente fastidio quando si rivolgeva a me con quel “tu” troppo facile e gli dirò che non è mai stato capace di mettermi a modo la mantellina sulle spalle! Oh, ma quante gliene dirò!
Luca arriva e io troneggio su di lui come una regina disadorna (citazione da uno dei miei autori preferiti) mani sui fianchi da brava “rezdora”, capelli dall’acconciatura spaziale e fumo che mi esce dalle narici come ai tori nell’arena.
“Dimmi, che problema hai?”
Mi da del tu e mi fa anche una domanda precisa: che problema ho.
Che problema ho?
Ne ho mille di problemi e non uno. Il più grosso è che ad una domanda precisa in una situazione di disagio, non mi viene mai la risposta che vorrei.
Qualche secondo di silenzio e poi…le braccia mi scivolano lungo i fianchi, i capelli mi si afflosciano e la mia statura immensa torna nella norma.
Con una vocina flebile e tremula che non mi appartiene per nulla, esattamente come non mi apparteneva quella roca di prima, dico :
“ Non si maltrattano così le signore” … divento rossa come un papavero e penso…meno male che leggo molto e vedo molti film, così qualche volta mi vengono le risposte giuste al momento giusto!


Titolo Film
NON SI MALTRATTANO COSI' LE SIGNORE
Anno
1968
Titolo originale
NO WAY TO TREAT A LADY
Durata
107
Vietato
14
Origine
USA
Colore
C
Genere
DRAMMATICO
Formato
TECHNICOLOR
Tratto da
ROMANZO DI WILLIAM GOLDMAN

(Sara Ferraglia)




martedì 29 gennaio 2008

Voce dell'est.



Voce dell’est.

Ogni mattina mi alzo, vado in stazione a Parma e prendo il treno dei pendolari, che mi porta abbastanza velocemente a Bologna: lavoro otto ore e poi torno a casa : tutti i giorni, tutto uguale senza infamia e senza lode.
Di bello in questa monotonia quotidiana c’è che mi viene spesso la voglia di scrivere, che non è una vera vocazione ma è qualcosa che un pò le assomiglia, perché ti prende così forte che certe volte vorresti scriverti sulla mano per non dimenticare il concetto.
Mi prende anche sul treno, magari solo guardando una faccia o ascoltando i discorsi della gente.
Salgo e cerco sempre di sedermi sul primo sedile a destra perché sono un’abitudinaria.
Sulla sinistra vedo che si stanno sistemando altre persone, salite insieme a me; le vedo solo con la coda dell’occhio.
Suona un cellulare : la stangata, quel vecchio film con Paul Newman.
“ Sì ciao, come tu sta? ” – voce di donna dolcissima, dall’inconfondibile accento dell’est.
Sui cellulari si può dir tutto di buono, tranne che rispettino la riservatezza; squillano a tutte l’ore e quando rispondi ti urlano nell’orecchio, come stava facendo adesso quella voce maschile. I cellulari ti trovano, sempre:
“ No, tu non ti preoccupa…no oggi no, io devo aggiustarmi la schiena, mi fa male…domani? Sì domani…Domani io viene da te…”
“ Dispiace a me …ti prego tu pazienza…oggi non posso…che problema ha tu? Domani…si domani io viene… ”
Mi volto verso quella voce così dolce e musicale. Ora tace. È una ragazza bionda, carina, dall’aspetto trascurato : i suoi abiti, per taglio e fattezza, non li indosserebbe nemmeno mia nonna.
Ha una codina tenuta ferma da un piccolo elastico di gomma, due spilline di alluminio ai lati, una maglietta coi brillantini e un paio di jeans scoloriti.
Due donne in piedi lì vicino conversavano prima che la ragazza parlasse poi zitte, immobili, facendo le indifferenti, hanno ascoltato tutto ed ora si lanciano sguardi complici e maliziosi e una dà una gomitata all’altra ammiccando verso la biondina.
Parma è una piccola, luccicante e borghese città di provincia dove conta apparire più che essere. Basta osservare queste due “signore” e ascoltare i loro discorsi per capire il concetto :
“ Io ti consiglio di andare alla lavanderia Profumo di via Farini…è un pò cara ma ti garantisco che lì sono molto bravi. D’altronde quando porti a lavare i cappotti chiari in cachemire e i pull un pò…come dire…importanti, sai, devi essere sicuro del risultato…” – questa donna tutta griffata dai capelli alle unghie dei piedi parla come se cercasse di muovere il meno possibile le labbra e i muscoli facciali. Ne risulta un’espressione innaturale, glaciale e antipatica.
“ Sì, seguirò il tuo consiglio, d’altra parte sai, anch’io in genere indosso capi belli in seta, lana fine…e quando la lavanderia te li rovina sono sempre grane e poi ti dispiace…” - risponde l’altra meno griffata ma dalla voce ancora più antipatica perché si sforza di produrre una “ r “alla francese che proprio non le appartiene!
Parlavano così le due signore, parlavano di vacanze, di abiti, di firme e si sono zittite quando la dolce voce dell’est ha risposto al cellulare.
E sottovoce la signora mummificata dice a quella con la “r” forzata:
“ Che pena! C’è pieno! Parma qualche anno fa non era così. Adesso sono arrivate anche queste dell’est che se fanno le badanti va anche bene ma sai com’è…spesso stanno sulla strada..” e guarda verso la dolce voce dell’est.
E l’altra :
“ Cara, d’altronde dove c’è la miseria! Sai, ieri un cliente di mio marito è andato in studio perché vuole aprire un bar in Romania e quelli gli stanno creando noie, tanto che è dovuto ricorrere all’avvocato. Ma perché aprire un bar? Non hanno soldi poveracci e quindi non possono nemmeno entrare nei bar.”
E la mummia sempre più rigida, spostandosi lentamente una ciocca di capelli dalla fronte:
“ Ma certo…meglio sarebbe un negozio di alimentari! Sono affamati. Quello può rendere molto di più! Chi ha fame deve pur comprare un pezzo di pane no? “
Suona il cellulare di una delle due: “ La cavalcata delle valchirie ”.
“ Cara…mio Dio quanto tempo!! Tutto bene al Forte ?“
Il Forte, per chi non lo sapesse, è Forte dei Marmi, località della Versilia molto nota, specialmente qui a Parma ; se hai almeno un bilocale al Forte il tuo prestigio, in certi ambienti, sale di molti punti.
Si alza la dolce ragazza dell’est, mi passa accanto, si volta per un attimo verso di me; sta piangendo e quelle sue lacrime mi colpiscono forte, come un pugno nello stomaco e vanno dritte all’anima.
Passa accanto anche alle “signore”, per un attimo rimane come sospesa…sembra voler dire qualcosa, invece le guarda negli occhi, in silenzio, prima una e poi l’altra e scende alla prima fermata.
(Sara Ferraglia)

( Immagine tratta da :http://www.odilialiuzzi.com/NICLA_img/ni.jpg)

martedì 22 gennaio 2008

La penultima fermata


Agosto in città.
E’bello camminare per le vie del centro così vuote, così silenziose. Riesci a cogliere dettagli e particolari che normalmente ti sfuggono. Ti senti più vicina alle poche persone che incontri e quasi vorresti fermarti a scambiare con loro due parole, senza fretta, senza ansia, solo per comunicare, per conoscere le loro storie.
Sono alla fermata degli autobus: la penultima di Via Repubblica. E’ tardi e il sole sta tramontando rosso fuoco in fondo alla strada e si lascia guardare, finalmente dolce ed arrendevole, dopo aver bruciato per tutto il giorno i tetti e le strade.
Si avvicina lentamente una donna anziana dalla corporatura robusta. Cammina come se ogni passo le costasse una fatica enorme. La borsetta piccola, nera, coi bordi spelacchiati e consunti penzola lentamente, al ritmo del suo passo, dalla sua mano destra. Indossa un vestito di tessuto sintetico a grossi fiori rossi, comprato forse sui banchi del mercato della Ghiaia, uguale a mille altri vestiti di mille altre donne anziane.
Improvvisamente scatta in me la voglia di quel gioco che faccio spesso quando sono calma, rilassata e non ho fretta.
Conoscere, capire…vivere la vita di quella persona sconosciuta, la sua storia…è più forte di me, non posso farne a meno.
“ Mi scusi, è già passato l’8?”- e la signora mi parla.
La guardo. Questa volta mi interessa il suo viso: rugoso, rughe dure, di quelle che solo un lavoro nei campi sa scavarti sul volto; occhi piccoli e vivacissimi, brillanti, ancora pieni di energia e di curiosità.
Le sorrido:
“ Non credo. Ma non ho badato molto, non vorrei darle un’indicazione sbagliata…”
Avrei voluto risponderle che non stavo guardando nulla, vedevo solo lei che attraversava e io lavoravo di fantasia, persa in un mondo parallelo: lei, in quei momenti era una persona ai raggi x della mia immaginazione.
“ Sa, io vengo a piedi da San Giovanni. Ho camminato fin qui ma adesso le gambe mi fanno troppo male…”
Si guarda i piedi gonfi, infilati in un paio di patetiche scarpe rese deformi dalle artrosi delle sue ossa.
“E dove deve andare ?”
“Là in fondo alla via. Lo so che è vicino ma non cammino più…Ho fatto un giro troppo lungo…” e mi elenca tutti i borghetti della zona dietro al Duomo. Un percorso preciso che io conosco poco. Lei invece parla come se avesse una mappa della città stampata nella testa.
“Sa, io abito in Via Dalmazia al 22, mi chiamo Pittella Letizia”
Mi viene da sorridere .Questa donna è sola, ha così voglia di parlare che mi dice in un attimo il suo nome, cognome e indirizzo. Mi prende una malinconia struggente .
“ Sono sola – dice abbassando la voce – la libertà che ho la pago con la solitudine! Mangio se voglio e quando voglio,vado dove voglio….ma sono sola”
Non so cosa rispondere…sto per dirle qualche banalità...ma lei continua:
“Lei perché non prende il 22 invece di aspettare l’8?”
Le rispondo volentieri:
“Io lavoro in quel portone, proprio qui davanti vede? E quindi mi fa comodo l’8…”
All’improvviso mi si blocca la parola …Io non ho mai detto a questa Letizia che sto aspettando l’8!
In un attimo cerco di ricordare se ci siamo già parlate, cerco di capire se lei mi conosce, se l’ho già vista ma non trovo nessun collegamento, nessuna ragione per cui lei possa sapere la mia strada di ogni giorno. Sento solo che questa donna mi è vicina, molto vicina e non solo fisicamente.
Ho indovinato che vive sola, ho intuito la sua vivacità contrapposta alla sua tristezza. E lei?
Lei mi sente nello stesso modo? Lei forse ha fatto con me lo stesso gioco!
Ma no…e giustifico il fatto col pensiero che a quell’età ci si confonde e forse mi scambia per qualcun’altra.
Come se niente fosse ,dando per scontato che io abito al capolinea del 22 , e che quindi avrei fatto meglio a servirmi di quella linea ,lei continua a parlarmi del nuovo supermercato di quella zona ,la mia….
Mi riprendo un po’ dallo stupore e sto per chiederle come fa a sapere dove abito ma arriva un autobus e lei mi saluta e a piccoli passi traballanti si avvicina al bordo del marciapiede.
“Signora…mi scusi ma quello non è il suo autobus ! Non stava forse aspettando l’8?”
Lei senza voltarsi mi fa un cenno di saluto con la mano, sale e se ne va lasciandomi sola e allibita sul marciapiede.
Ormai del sole rosso in fondo alla strada si vede solo un semicerchio .
Ecco, sta per arrivare l’8…dovrei salire e tornare a casa e soprattutto dovrei smetterla con questo stupido gioco ma quando l’autista si ferma e mi apre la porta io lo lascio ripartire . Ho un’urgenza. C’è una cosa che devo assolutamente fare.
Attraverso la strada deserta e in fondo alla via giro a sinistra verso Via Dalmazia. Quella donna ha detto di abitare lì, al n° 22.
Sono ansiosa, curiosa, agitata e non so perchè. Non so nemmeno perché sto facendo questo.
Arriverò tardissimo a casa, si preoccuperanno ma io devo vedere dove abita Pittella Letizia.
La via è uno stretto budello che corre fra due file di case del secolo scorso o forse anche più vecchie; nessun albero, nessun giardino, solo portoni che si aprono direttamente sullo stretto marciapiede.
Percorro lentamente il lato dei numeri pari, cercando il 22. Lo trovo : sono otto campanelli e sul primo trovo il nome, Pittella Letizia.
Ecco,adesso potrei anche ritenermi soddisfatta. Potrei smetterla con questo voler credere nelle percezioni strane, nelle voci che arrivano direttamente dal mio cuore e che il cervello spesso si rifiuta di elaborare.
E invece come se non dipendesse dalla mia volontà il mio dito si avvicina al campanello e suono:
una volta,due volte…Silenzio. Nessuno risponde. Sto per andarmene quando si aprono le persiane del primo piano e si affaccia una donna dall’aria infastidita :
“Ma cosa vuole? Perchè suona con tanta insistenza? “
“Mi scusi signora, io cerco Letizia Pittella, non volevo disturbare lei!”
La donna mi guarda in silenzio. Un silenzio che dura una vita.
“Mia madre è morta un mese fa. Abitava qui nell’appartamento di fianco al mio”
Non so come spiegare la mia presenza lì su quel marciapiede .
“Mi dispiace ma…”
Non posso certo dirle che io l’ho incontrata un quarto d’ora prima e che le ho parlato.
“Com’è accaduto?”
“ Purtroppo mia madre era una donna tutt’altro che tranquilla. Alla sua età, nonostante tutti gli acciacchi che aveva ,era continuamente in giro. Passava giorni interi sugli autobus con le scuse più banali. Magari decideva di andare a comprare una micca di pane dall’altra parte della città! Era fatta così…e un giorno mentre scendeva dall’autobus è caduta. Una caduta tanto brutta che non si è più ripresa e se n’è andata…..ma lei? Perché la sta cercando?”
In questo momento devo davvero ringraziare la mia fantasia se quello che sto per dire risulta essere abbastanza logico e credibile:
“Veniva spesso nel mio bar e ogni tanto comprava un biglietto della lotteria. Ne facciamo spesso nel quartiere, a beneficio della casa di riposo…E sua madre comprava un numero e scriveva sempre sulla matrice nome, cognome e indirizzo. Ecco…volevo solo dirle che ha vinto una scatola di caffè…mi dispiace tanto signora…ma mi scusi…dove è accaduto? Che autobus era?”
La donna ora ha lo sguardo triste e gli occhi sono pieni di lacrime.
“ Era l’8. Alla penultima fermata di Via Repubblica.”