mercoledì 12 dicembre 2007

Un Natale d'incanto.

Un Natale d’incanto.

“Che regalo vuoi zia Titti per Natale?” – lei è seduta come sempre accanto al termosifone, nella piccola cucina dove ancora troneggia il vecchio camino da anni in disuso.
Mi osserva col suo sguardo vispo e curioso, sul quale nemmeno la fitta e intricata ragnatela di rughe profonde è riuscita ad avere il sopravvento: gli occhi color nocciola risplendono giovani e pieni di vita nel suo volto scarno di novantenne.
“ Se mi fa male? Si che mi fa male la schiena…per forza con questo caldo moderno! Quando accendevo il fuoco mi sedevo due minuti lì davanti al camino e mi passava tutto…ahia…ahimè “- se zia Titti ha la vista e lo sguardo di una ventenne non si può certo dire che sia stata altrettanto fortunata con l’udito.
“ No zia, ti ho chiesto che regalo ti piacerebbe per Natale…”- credo che l’eco della mia domanda sia giunto fin sulla cima della collina, tanto ho alzato la voce ma non risponderà nessuno perché quella di zia Titti è l’unica casa nel raggio di tre chilometri e tutt’intorno ci sono soltanto boschi e campi, che la nevicata della notte ha reso immacolati e ancor più silenziosi.
“Non gridare… ho capito !- e per un attimo fa la faccia offesa - ascolta, sai cosa mi piacerebbe? Mi piacerebbe andare in città a vedere i negozi illuminati con tutti gli addobbi di Natale…-
Mentre mi risponde si liscia i capelli candidi e radi, raccolti a crocchia sulla nuca, nel tenero tentativo di apparire più ordinata e assume il tono piagnucoloso e imbronciato di una bambina di cinque anni:
“Nessuno mi ha mai portata a vederli, neanche quando ero più giovane…!”
“Zia, ma che dici? Da giovane eri tu che non volevi mai lasciare “Il Pianello”- così si chiamava la sperduta località dove abitava da sempre- ed ora che fai così fatica a camminare e a muoverti vorresti andare giù in città? Non credi che i tuoi siano solo capricci?”
Sto riordinando la cucina e mi fermo di colpo perché la richiesta della Titti mi ha stupita.
“ Nàni – lei mi chiama sempre così - perché mi hai chiesto che regalo voglio per Natale…? Se hai già in mente tutto te, potevi anche tacere…”
Non voglio certo mettermi a discutere con Titti ma voglio capire fino a che punto la zia vuole davvero che la porti in città con questo freddo e con la strada quasi impraticabile.
Una volta sola nella sua lunga vita zia Titti andò in città e fu in occasione di un ricovero urgente per quella che, sulle prime, sembrò una grave malattia del fegato ma che poi risultò essere una banale intossicazione alimentare.
“ Carina, senti – mi sussurrò piano all’orecchio quella volta, mentre stavo seduta di fianco al suo letto – non dirlo a nessuno, neanche al signor dottore: io ho mangiato cinque pacchetti di patatine fritte, perchè sono molto più buone di quelle che faccio io, lo sai?”- quell’unica volta non ebbe certo il tempo né la voglia di visitare le vie del centro.
“ Zia, perchè desideri tanto che ti porti in città per Natale? Non è per vedere le vetrine vero?” – ora mi siedo vicino a lei e l’abbraccio e la sua mano ossuta e tremante prende la mia e stringe forte :
“ No, cara…però mi piacerebbe proprio tanto, perché non ho più tempo...e devo fare una cosa…”
In quel momento sento che non posso fare a meno di accontentarla, perché la vita glielo deve e perché c’è una forza misteriosa in quel desiderio, che nasce dalla sua anima candida come la neve che brilla là fuori.
E’ il pomeriggio della Vigilia quando le faccio indossare il cappottino elegante,quello con il collo di astrakan e il cappellino di feltro, che lei tiene, come una preziosa reliquia, in una scatola nell’armadio. Velocemente Titti, girandomi le spalle come se non volesse farsi vedere, nasconde qualcosa nella borsetta; riesco solo a intuire che si tratta di un piccolo oggetto avvolto in un carta dorata sottile. Nell’aria aleggia un leggero odore di canfora e di Violetta di Parma, il suo profumo preferito.
Tutto avviene come in una scena al rallentatore: Titti a piccolissimi strascicati passi si avvicina all’auto, faticosamente riesce ad accomodarsi sul sedile e finalmente partiamo.
“ Và piano vè nàni… lo sai che io ho paura…”- e durante i primi dieci minuti del viaggio si tiene al sedile con entrambe le mani e guarda fisso davanti a sé la strada, che per fortuna lo spazzaneve ha reso praticabile.
La città dista una ventina di chilometri dal “Pianello” ma il nostro viaggio sembra interminabile ; ora zia Titti è più rilassata ed è completamente stregata dal paesaggio che ci scorre lentamente intorno e affascinata dal numero delle automobili che incontriamo.
“ Sai quante ne ho contate solo in questo pezzo di strada? Cinquanta! Chissà in tutto quante ce ne sono e tutti si possono spostare e vedere il mondo ! L’Adele non ha mica ragione quando dice che una volta era tutto meglio…non c’erano tutte queste comodità, anzi non c’era niente!“ - l’Adele era la sua vecchia amica, che aveva abitato fino a pochi anni prima nel casolare più vicino al Pianello e che, al contrario di Titti, aveva una mentalità rigida e chiusa a qualsiasi cambiamento.
“ Ecco zia, siamo alle porte della città…hai visto che belli gli alberi di Natale sui balconi e nei giardini?”
Lei non risponde, guarda fuori dal finestrino, piccola e fragile col suo cappellino, che le sta un po’ largo e sorride scuotendo il capo; chissà quali sono ora i suoi pensieri e chissà dov’è il suo cuore.
“ Ora prendiamo questa via che ci porta dritti in centro, dove ci sono i negozi più belli e le vetrine più decorate…ti va bene o vuoi vedere qualcosa in particolare Titti? “- rallento in attesa di una sua risposta.
“Vorrei andare in viale Pacini al numero uno…per favore…” – la sua voce si è fatta all’improvviso tremante per l’emozione.
“Viale Pacini? Ma zia, lì c’è solo il cimitero...sei sicura?”- domanda inutile perché sento che Titti non ha dubbi: sa esattamente cosa vuole fare ed ora anch’io comincio ad intuire il vero motivo di questo suo viaggio.
Lei non risponde e guardando sempre fisso davanti a sé allunga una mano sul mio ginocchio e delicatamente batte due volte e questo è il suo “si”.
Svolto verso il viale, che in questo pomeriggio freddo e bigio è deserto come se la frenesia e l’euforia della festa imminente non avessero toccato questo luogo.
Parcheggio vicino al cancello principale; Titti scende, mi prende sottobraccio e ci incamminiamo.
Ora è lei che guida i nostri passi perché, in realtà, io non so dove stiamo andando e la seguo in silenzio come presa dall’incanto di una magica atmosfera fatta di mistero e di curiosità .
Ora cammina più speditamente,come se una nuova energia le avesse rinvigorito le gambe stanche e non ha dubbi nemmeno quando ci troviamo in un intricato crocevia di vialetti fiancheggiati da piccole siepi di mirto profumato: Titti svolta a sinistra e poi a destra e poi ancora a sinistra senza mai mostrare segni d’incertezza, fino ad arrivare davanti a una lapide di pietra annerita.
“ Ecco nanì sono arrivata…” - apre la borsetta e prende il pacchettino di carta dorata, mi chiede di aiutarla ad aprirlo ed estrae una piccola rosa rossa di porcellana; piegando la schiena come da anni non le vedevo fare, Titti si china sulla tomba e posa la rosa davanti alla fotografia di un giovane uomo dall’aspetto fiero e dai folti baffi scuri.
DECAROLI ALFREDO DI ANNI 23 CADUTO VALOROSAMENTE IN BATTAGLIA PER DIFENDERE LA LIBERTA’. Leggo ed ora ricordo : Zia Titti qualche volta, quando le chiedevo perchè non si fosse mai sposata, mi aveva accennato di un amore perduto, che mai più avrebbe potuto provare per qualcun altro. Ed ora capivo : Alfredo era il suo grande amore di tutta una vita e da sempre zia Titti sapeva dov’era sepolto.
“Perché in tutti questi anni non mi hai mai chiesto di portarti qui zia? “
“Perché non era necessario. Lui era sempre dentro di me, nel mio cuore…ma adesso sono vecchia e quando morirò ho paura che il suo ricordo morirà con me…però questa rosa rimarrà sempre qui vero? “ – mi guarda con la stessa espressione che hanno i bambini quando vogliono credere alla fata buona delle favole.
“ Certo Titti, rimarrà sempre qui e io verrò ogni anno, la Vigilia di Natale ad assicurarmi che ci sia ancora…te lo prometto.”
Titti in questo momento ha lo sguardo triste ma è solo questione di un attimo; chiude la borsetta e si dà un’aggiustatina al cappello.
“ Brava…dai adesso andiamo che comincia a nevicare e fa tanto freddo…- si stringe al mio braccio e torniamo lentamente verso l’uscita.
Il cielo è bianco, gonfio di neve e qualche fiocco volteggia già nell’aria e si posa sulle tombe ai lati del sentiero, sulle foglie rosse di una miriade di Stelle di Natale , portate qui dal ricordo di qualcuno.
Ci voltiamo un attimo verso la tomba di Alfredo, spoglia e nuda, sulla quale ora spicca la macchia rossa di una piccola rosa sbocciata fuori stagione.
Tornando verso casa percorriamo la via principale, sfavillante di luci e di colori e brulicante di gente frettolosa e carica di pacchi e borse della spesa.
“ Ma dove vanno tutti così di corsa? Sai nàni…i negozi sono belli ma il Natale mi piace di più passarlo al Pianello, qui c’è troppa confusione e mi gira un po’ la testa…- è stanca zia Titti, il suo respiro è affannoso, si appoggia al sedile e chiude gli occhi.
Ed io guido tranquillamente, nonostante la nevicata si stia sempre più infittendo, e penso che questa strana Vigilia di Natale è stato un dono prezioso, una dolce lezione d’amore che zia Titti mi ha regalato; come se lei stesse leggendo nei miei pensieri, senza aprire gli occhi sussurra:
“Ti ringrazio tanto nàni…mi hai fatto un gran regalo , perché questo è stato il giorno più bello della mia vita…quest’anno passerò un Natale d’incanto.”


Sara Ferraglia

mercoledì 5 dicembre 2007

Il profumo della violetta nell'aria

Il profumo della violetta nell’aria

Quand’ero una ragazzina di quindici anni non mi piaceva il mio corpo secco e acerbo e nemmeno il mio modo di camminare, sempre un pò con le spalle curve, come per nascondere quel piccolo seno che stava spuntando, timido come me. Una volta la settimana, al pomeriggio, frequentavo il corso di pianoforte e, abitando fuori città, in quell’occasione andavo a pranzo a casa della zia Lina.
Eravamo ancora nell’ingresso che lei mi diceva, battendomi le spalle : - Stai dritta! Vuoi diventare una bella signorina o una brutta paperina?- che poi era proprio come mi sentivo io.
Mia zia Lina a settant’anni suonati aveva ancora uno splendido corpo e un portamento da “signora”, nonostante nella vita avesse fatto sempre lavori molto umili e avesse indossato, negli anni più duri, cappotti rivoltati e scarpe risuolate più volte.
“Me lo dici come fai a mantenerti così in forma?” – le chiedevo ogni volta che andavo a casa sua.
Lei si lisciava i fianchi con orgoglio, assumeva una posa plastica da diva del cinema muto e sorseggiando un goccio di Vov, denso e corposo, fatto in casa con le sue mani, rispondeva:
“ E’ la musica, è sempre stata la musica a farmi rimanere giovane e bella ” - si alzava, apriva un mobiletto al cui interno stava un vecchio giradischi e posava sul piatto un altrettanto vecchio vinile. Nella stanza si diffondevano la forza, la potenza e il maestoso romanticismo di un giovane Toscanini e la voce angelica di una splendida Renata Tebaldi
“ Mi chiamano Mimì ma il mio nome è Lucia…” - cantavano insieme la zia e la Tebaldi.
La zia abitava in Oltretorrente, la zona povera della vecchia Parma, storicamente contrapposta alla Parma borghese e ricca dall’altra parte del torrente. Qui, in questi crocevia di borghi stretti e colorati palpitava il cuore musicale della città e non era insolito passare davanti alla Corale Verdi e lasciarsi rapire la mente da un pianoforte solitario o dai solfeggi di un giovane tenore alle prime armi.
“ Vieni qui, affacciati alla finestra e guarda …” – ci appoggiavamo al davanzale coi gomiti a goderci tiepide giornate primaverili, quando ancora si sentiva nell’aria il profumo della violetta appena sbocciata nei prati del Parco Ducale, a pochi metri da noi.
“ Ecco, lì a destra, nella casa di fianco è nato Arturo. La mia amica Dirce, pover’anima, mi diceva sempre che lui non piangeva mica come un neonato normale, lui gorgheggiava! Sai, mi ha sempre fatto impressione abitare così vicino a questo luogo sacro!” - chiudeva gli occhi e volava lontano, sopra i tetti dell’Oltretorrente, dove io non riuscivo a seguirla.
Mi sporgevo a guardare il numero 13 di Borgo Tanzi e non capivo tutta quest’ammirazione per quella fetta di casa, così vecchia e con i muri scrostati.
“ Suo padre faceva il sarto e forse i soldi in tasca erano pochi ma l’anima cara mia! Sapessi che anima ricca che aveva Arturo, ricca e grande come tutto l’universo, come la musica che lui riusciva a far scaturire dall’orchestra…” - e di nuovo la zia si esaltava e rientrando nella stanza fresca ricominciava a cantare compiendo ampi gesti con le mani,ai quali spesso faceva seguito un urlo di rabbia :
“Ah! Maledet al dievel! Al sofrit…! “- perché nel frattempo, cantando e ballando, la zia aveva lasciato che il sugo per la pasta, il soffritto, divenisse un intruglio carbonizzato.
“ Vè che roba! … Fa niente, nàni, vorrà dire che mangeremo una bella pasta in bianco, con tanto burro fresco e tanto parmigiano, va bene?”-
Quasi sempre io mi impigliavo nelle tende di pizzo che svolazzavano al vento primaverile e, quando riuscivo a liberarmi, goffa e maldestra com’ero, correvo in cucina a tranquillizzare la zia.
Più tardi, verso le una, arrivava mia cugina, che studiava arpa al conservatorio.
Stefania, occhi azzurri, fianchi morbidi, vita stretta e un seno prosperoso, il tutto fasciato in un tubino nero che scendeva appena sotto il ginocchio, era il classico prototipo della bellezza femminile di quegli anni. Portava i capelli raccolti e cotonati sul capo, secondo la moda dell’epoca e una sottilissima riga di eye-liner evidenziava il suo sguardo da cerbiatta.
“ Ehilà, oggi abbiamo ospiti! “ – buttava una carpetta di spartiti sgualciti sulla poltrona e mi dava un bacio sonoro su una guancia lasciandovi un cuore di rossetto fucsia. – “Mamma cosa si mangia?” – e allungava il collo in cucina.
“Vissi d’arte, vissi d’amore …”- rispose cantando mia zia – “ per te non vanno mica bene queste parole! Tu vivresti di tortelli d’erbetta e cappelletti in brodo, altrochè !”-
Stefania mi passò vicino per andare in camera sua a cambiarsi d’abito e mi fece l’occhiolino.
“ Sarà anche vero che mangio molto ma tu mi trovi grassa? L’unica cosa grassa che ho sono i polpastrelli delle dita a forza di suonare l’arpa giorno e notte! – e piroettando sui tacchi a spillo, con la grazia di una ballerina del Falstaff spariva nella sua stanza.
I profumo del sugo per la pasta, quel giorno irrimediabilmente bruciato, il canto di mia zia e i dolci arpeggi di mia cugina si fondevano in quella stanza e mi avvolgevano in una meravigliosa armonia.
Musica e gusto, connubio così stretto in queste nostre terre, da allora rappresentano per me condizioni ideali e quasi indispensabili per godere in pieno della vita.
Pranzavamo in quella stretta cucina e mia zia raccontava di anni passati, di umiliazioni e sacrifici immensi e qualche volta, al ricordo, i suoi occhi si riempivano di lacrime sotto gli occhiali dalle spesse lenti, come se ancora stesse vivendo l’angoscia di quei tempi. Era questione di un attimo, un solo istante e poi il suo busto si raddrizzava, il suo sguardo tornava fiero e di nuovo sorrideva e si sistemava la “messinpiega” col modo lezioso di una ragazzina. Nel suo modo di vivere la povertà di quegli anni e poi in seguito, in tutta la sua vita, spiccavano in lei la sua dignità, il suo orgoglio, il suo voler apparire sempre “la signora Lina” agli occhi dei vicini e dei commercianti del quartiere; per questo, pur essendoci in Borgo Santo Spirito, a pochi passi da casa sua, un negozio d’alimentari, a fine mese, quando il borsellino era vuoto, lei saliva sulla sella della sua bicicletta ed attraversava la città, fino in fondo a via Bixio, dove nessuno la conosceva e dove aveva trovato un negozio che le faceva credito.
E raccontava del prestito ottenuto per comprare l’arpa per Stefania…
“… e allora, nanì, tu non puoi immaginare la mia felicità quando riuscimmo a portare a casa quell’arpa, uno strumento dell’ottocento, usato ma ancora in ottimo stato vè…” – la zia si alzò per riordinare la cucina e Stefania si guardò i calli sui polpastrelli.
“Anche le mie mani sembrano dell’ottocento, guarda! “– seguiva sua madre e, abbracciandola da dietro, le slacciava il grembiule per prendere il suo posto al lavello. Tutto questo accadeva molto tempo fa.
E in quel quartiere popolare dell’ Oltretorrente, in quella stanza dal profumo antico di onestà, di dignità e di nobiltà d’animo ora che sono diventata “una bella signorina” dalla schiena dritta, ascolto il suo respiro che si fa sempre più lieve. E’ il tempo del riposo e dell’ascolto.
Stefania mi ha detto che ormai da più di un mese non si alza dal letto. Ha voluto che venisse una parrucchiera ieri mattina per dare “una rinfrescata” alla messinpiega e per sistemare i pochi capelli che le sono rimasti; ha voluto lo smalto alle unghie e gli orecchini con l’acquamarina perché “Nanì, lo sai, mi viene a trovare tanta gente!” – dice quasi sussurrando. Sul comodino accanto al letto c’è un flaconcino di Violetta di Parma, il suo profumo preferito, che ha resistito nel tempo alle lusinghe della moda e il cui aroma delicato emana da tutta la sua biancheria. “Guarda come sono diventata ! Guarda che brutte gambe piene di lividi…coprimi bene, va là… “- con una lentezza esasperante ed una fatica immensa cerca di arrivare al lembo del lenzuolo.
“Dai zia, lo sai che hai ancora due bellissime gambe! Chissà quanti ammiratori avevi …e quando guarirai ce lo facciamo un ballo?” – l’aiuto a coprirsi cercando di non vedere il suo corpo devastato dal male.
“ Bella figlia dell’amore…schiavo son dei vezzi tuoi…con un detto sol tu puoi…” - la sua risposta è in questo canto ad occhi chiusi, con lunghe pause fra una frase e l’altra e con la voce che si fa sempre più soffio nel vento.
Stefania , seduta accanto alla madre, la guarda e sorride; lentamente si avvicina con la bocca al suo orecchio, le prende la mano scarna e continua quel canto struggente, quella frase che la zia non ha la forza di terminare:
“…le mie pene…le mie pene consolar…”
Un colpo di vento più forte degli altri fa gonfiare le tende di pizzo, spalanca la finestra, scivola sulle corde dell’arpa, che da mesi tace, le fa vibrare ed entra nella stanza della zia, accarezzandole dolcemente la fronte…
“…le mie pene…le mie pene consolar…”


( Sara Ferraglia )

mercoledì 21 novembre 2007

Il piccolo salice bianco

Il piccolo Salice Bianco

In primavera un piccolo salice bianco era nato sulle rive del torrente Parma. Durante l’estate già sfiorava con le sue tenere foglie lo specchio dell’acqua e si dondolava lentamente, cullato dal vento che scendeva nella valle. All’inizio i suoi migliori amici furono i sassi e l’acqua : i sassi erano tranquilli, calmi e affidabili ma, fra le creature del torrente, avevano la fama di essere noiosi e brontoloni; con l’acqua invece il piccolo salice si divertiva a cantare per ore e ore nelle afose giornate estive anche se tutti dicevano di lei che era capricciosa, frivola e superficiale.

“Son allegra felice e ridente
canto inni festosi alla vita
mi rilasso nel dolce far niente
scendo a valle con gioia infinita”

“ La senti quella sventatella ?– borbottavano i Sassi - un giorno ti accorgerai che nella vita non è tutto così allegro e divertente come dice lei.”
“ Smettetela – rispondeva l’acqua cristallina – voi siete sempre così seri e pessimisti ! Il mondo è
gioia, luce e fantasia ; lasciate che il piccolo salice passi le sue giornate giocando spensierato insieme a me! “.
Per molto tempo infatti la sua vita trascorse in modo tranquillo, fra le storie tristi e cupe dei sassi e i canti divertenti dell’acqua ma i giorni passarono in fretta e al piccolo salice non bastò più la compagnia dei suoi vecchi amici; il suo fusto era cresciuto e si era irrobustito, le sue fronde si erano fatte folte e pensò di essere ormai in grado di conoscere nuovi amici, che fino a quel momento aveva temuto, perché erano molto volubili e facilmente irritabili e, quando si arrabbiavano, potevano essere anche molto violenti e pericolosi : il vento, la pioggia e le nuvole. Le creature del torrente dicevano di loro che, viaggiando continuamente in lungo e in largo, erano a conoscenza di tutto quello che accadeva sulla terra. Il piccolo salice era curioso di sapere chi avesse ragione: il mondo era pieno di dolore e cattiveria, come sostenevano i sassi, oppure tutto era gioia e spensieratezza come diceva l’acqua?
Un giorno, nella valle del Parma scese il vento di scirocco caldo e umido, scuotendo le foglie degli alberi e sollevando la sabbia nel greto.
“ Ehi, amico vento fermati un attimo” – gridò il piccolo salice – dimmi da dove vieni e cos’hai visto nel tuo viaggio…ti prego, sono così confuso!”
Il vento si fermò, si asciugò il sudore e rispose:

Ti racconto di un uomo africano
per sfuggire alla fame e alla guerra
ha deciso di andare lontano
e ha lasciato la sua calda terra.”

E così com’era arrivato, ripartì e si allontanò per chissà dove, lasciando il piccolo salice stupito e
senza parole.
“Cosa ti avevo detto ingenuo alberello ? – parlò con la sua grossa voce un sasso molto vecchio che gli stava accanto fin da quando era nato – al mondo c’è tanta miseria e tanta sofferenza!”.
“Non ti credo sasso brontolone – rispose il piccolo salice – quello che ha detto il vento riguardava solo un uomo fra i milioni di uomini che vivono sulla terra e forse tutti gli altri sono felici!”
In quel momento un’ombra scura passò su di loro e quello che disse non fece che confermare le parole del vecchio sasso:

“Ti racconto di barche affollate
e di volti dal sole riarsi
e di mani alla vita aggrappate
e di sogni per il mondo sparsi.”

Era un’immensa nuvola carica di pioggia che , spinta dal vento , scendeva verso valle lasciando cadere grossi goccioloni sulle foglie del salice.
“Ciao amica pioggia e tu cos’hai visto nei tuoi viaggi? Cosa mi racconti ?

“Ti racconto di popoli in fuga
di bandiere di armi e di guerra
e dell’odio che l’anima asciuga
ombra nera che sporca la terra”

gli rispose la pioggia tristemente e, accarezzando le sue foglie come per consolarlo, proseguì il suo cammino.
In quel momento l’acqua gorgheggiò: “Ehilà, piccolo amico, cos’è quell’espressione cupa? Senti…ho inventato una nuova canzoncina…senti che ritmo…batti le foglie con me!”


“ Ti racconto di un porto accogliente,
grandi cuori che sanno donare
mani tese e carezze alla gente
per il mondo costretta a migrare”

Il piccolo salice intuì che c’era qualcosa di vero sia nelle parole dei sassi che in quelle dell’acqua ma quello che aveva ascoltato dai suoi amici vecchi e nuovi non gli bastò: era più confuso di prima.

“Sono come un bambino smarrito:
questa vita è gioia o dolore?
Sento dentro un dubbio infinito
che imprigiona il mio piccolo cuore”

Così piangeva il piccolo salice quando, passato il veloce temporale estivo, nel cielo terso tornò a splendere il sole:
“ Mio tenero alberello – gli disse il re del cielo – ti ricordo che tu non sei un salice “piangente”, perciò animo, solleva le tue fronde e torna a sorridere ! La vita non è solo dolore o solo gioia ma esistono entrambi ed è sempre un dono rarissimo e prezioso, anche nei momenti più difficili ; se ti renderai conto di questo …

"Avrai giorno per giorno occhi curiosi
Avrai un cuore che saprà ascoltare
Avrai pensieri chiari e luminosi
E braccia sempre pronte ad abbracciare”

Venne il tramonto di una giornata davvero speciale : per il piccolo salice era stato un po’ come nascere a nuova vita.
Con un gesto pieno d’affetto il sole avvolse l’alberello nei suoi ultimi tiepidi raggi e , riscaldandolo, gli fece tornare il sorriso. La calma e il silenzio calarono sulla valle del Parma quando dietro il colle spuntò la Luna che, sottovoce , intonò per il piccolo salice e per tutte le creature del torrente una dolce e rassicurante ninna nanna:

“Filastrocca del tranquillo sonno
del silenzio e del cielo stellato
delle favole lette dal nonno
della corsa in un verde prato.”
(Sara Ferraglia - Menzione speciale Premio Violetta di Soragna - 2006)
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I colori prigionieri


I Colori prigionieri

C’era una volta una bambina che un giorno si stancò di disegnare con le matite di legno colorate e preferì dei grossi pennarelli di plastica. Fece un fascio di tutte le matite, le legò con un elastico e le ripose nel fondo di un cassetto; sulle prime le poverine furono incredule:
“Non temete, sarà solo per pochi giorni” – così il Rosso, potente e focoso capo, cercava di incoraggiare tutte le altre ma il tempo passava e quel cassetto non si apriva mai diventando, giorno dopo giorno, una prigione stretta e buia.
“Ah…poveri noi! Siamo stati abbandonati qui dentro e io finirò per diventare Verde Marcio in questo posto!” – il Verde piangeva disperatamente e le sue lacrime, cadendo goccia a goccia sul legno, lasciavano larghe chiazze color dell’erba in primavera.
“ Smettila! Proprio tu…Verde Speranza ti chiamano! E invece guarda lì come sei ridotto…piagnucoloso che non sei altro! Smettila e cerchiamo tutti insieme una soluzione per uscire di qui…- strillò il Giallo con la sua vocina acuta e i suoi modi stizzosi.
“Certo, ha ragione…dobbiamo sempre sperare! C’è sempre qualcosa di buono in ogni situazione e se ci è accaduto tutto questo un motivo valido ci sarà non credete? “ – il languido Rosa, delicato ed aggraziato come sempre, stava dando a tutti gli altri la sua solita lezione di ottimismo, sbattendo le ciglia e sorridendo a destra e a manca. Nella discussione intervennero anche le altre matite, anche quelle che di solito tacevano, quelle più timide, come l’Azzurro e il Grigio e così si creò una gran confusione, perché ognuno diceva la sua.
“Forse non erano belli e luminosi il sole e le stelle che io le regalavo?” – e una lacrima luccicante come l’oro spuntò dagli occhi del Giallo.
“Forse eri troppo acido quando coloravi limoni a più non posso! – rise fragorosamente il Marrone – avrei dovuto insistere di più io, che ero così dolce quando le riempivo le tazze di cioccolata calda e fumante!
“ La colpa non è nostra! Noi le abbiamo dato tutto quello che lei desiderava…- il Blu e il Viola si stavano perdendo nei ricordi - cielo, mare, tramonti , arcobaleni, fiori e frutti…”
Furono zittiti bruscamente dalla voce tuonante del Nero:
“ E basta…! E’ ora di finirla, sdolcinate e stucchevoli creature che non siete altro – urlò il Nero, l’unico che si trovava a suo agio anche in quel luogo oscuro e senza luce – siamo stati abbandonati. Ha ragione il Verde…invecchieremo qui dentro, sommersi dalla polvere e dai ricordi.”
Passarono i giorni, le stagioni e gli anni e la bambina cresceva. Si avverò anche la cupa profezia del Nero, quando videro accumularsi nel cassetto, sopra i loro corpi colorati e sottili, mille oggetti un tempo amati e poi abbandonati; pupazzetti dai nomi strani, un diario segreto, un poster gigante di un personaggio famoso, lettere e fotografie di un ragazzino biondo dal volto pieno di brufoli che abbracciava una ragazza dal sorriso abbagliante, la bambina di un tempo.
Quando ormai le matite avevano perso ogni speranza di rivedere la luce, accadde un fatto nuovo: all’improvviso il cassetto si aprì, ad uno ad uno i mille oggetti che vi giacevano accatastati furono rimossi e due mani delicate e segnate da qualche ruga arrivarono al mazzetto di matite colorate e le avvolsero in un caldo abbraccio che loro, poverine, avevano ormai dimenticato.
“Guarda un pò…delle matite colorate! Da quanto tempo siete qui? Lei era così piccola …”- era la mamma della bambina quella signora dai capelli grigi che ora, mentre liberava le matite dall’elastico che per anni le aveva costrette l’una addosso all’altra, liberava anche tutti i suoi ricordi. I colori, finalmente riportati alla luce del sole e all’aria aperta, inspirarono ed espirarono così forte che sfuggirono dalle mani della signora e ricaddero sul pavimento spargendosi a raggiera tutt’intorno. La signora fece un balzo all’indietro per lo spavento:
“ Ma che diavolo…sembrate quasi vive!” – poi si avvicinò, si chinò e le raccolse ad una ad una allineandole sul tavolo.
Il Rosso, al quale piaceva mettersi sempre in mostra, con uno sforzo immenso fece in modo di rotolare sul tavolo, fino ad uscire dalla fila e a distaccarsi dal gruppo. E fu così che la signora lo notò, lo prese fra le dita, si fermò un attimo ad osservarlo, sorrise, come persa in qualche tempo lontano, poi prese un foglio bianco e scrisse:

Rosso.
E tu rispondi rosso peperone
Io penso al rosso di quel grande cuore
Che hai disegnato piena d’emozione
Su quel tuo diario per il primo amore.

La signora passò in rassegna con lo sguardo tutta la fila delle matite; posò il Rosso e in quel mentre notò che il Giallo si agitava in una specie di convulsa e scoordinata danza tribale che lo portò direttamente nella sua mano.

Giallo.
E tu rispondi giallo canarino
Io penso al giallo del cotone leggero
Che hai scelto per quel corto vestitino
Che volevi mostrare al mondo intero.

Stupita la signora rilesse quello che aveva scritto e che era uscito dal suo cuore così di getto, come se qualcuno glielo avesse dettato. Le piacque tanto che si sentì incoraggiata a continuare e questa volta lo fece col Verde, che se ne stava lì tranquillo, primo della fila, a sperare di essere preso in considerazione; d’altronde…lo chiamavano o no “Verde Speranza”?

Verde.
E tu rispondi verde come l’erba
Io penso al verde di quel primo ombretto
Che ti sfumavi piano sulla faccia acerba
Cercando nello specchio un tuo difetto.

Fu allora che amore, tenerezza e un briciolo di tristezza per un passato che mai più sarebbe tornato, si fusero insieme, dando origine, nella mente della signora, ad un sentimento dal tono più cupo e fu con quello stato d’animo che scelse il Viola:


Viola.
E tu rispondi violette appena nate
Io penso al viola del casco e al motorino
Che han visto le tue corse scatenate
Già così allegra fin dal primo mattino.

Tutte le matite colorate intanto si agitavano, si guardavano l’un l’altra sorridendo, tutte felici di essere di nuovo tornate utili a qualcuno.
Solo una, in mezzo all’euforia generale, se ne stava tristemente in disparte, consapevole di passare sempre troppo inosservata e di non essere mai stata amata come le altre, il Bianco.
Era ormai sera. In strada si accesero i lampioni e fu così, guardando fuori dalla finestra che la signora si accorse che stavano cadendo fiocchi di neve grandi come una mano, che avevano già imbiancato tutto il prato. E forse fu per questo che, solo col pensiero, senza scriverla, al Bianco dedicò la strofa più bella:

Bianco.
E tu rispondi il bianco della sposa
Io penso al bianco della luce vera
Che tu hai portato sempre in ogni cosa
Ne faccio un quadro e per me vien sera.

Alla fine la signora rilesse quello che aveva scritto, piegò delicatamente il foglio, raccolse tutte le matite colorate e su quel foglio le posò con dolcezza, come se fosse per loro un morbido giaciglio che le avrebbe accolte per sempre.
Poi mise tutto in una bella scatola di velluto rosso e sul coperchio pose un’etichetta dorata sulla quale scrisse:
“ I colori di mia figlia".


(Sara Ferraglia -Fiaba 1^ classificata al Concorso "Una Fiaba Azzurro Ceno"- Varano Melegari - giugno 2005)
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mercoledì 14 novembre 2007

La leggenda della rosa segnatempo

In quell’epoca, attorno agli anni cinquanta, in paese si conoscevano tutti ed in particolare lui, Pietro, godeva di una certa notorietà, perché era l’unico calzolaio nel raggio di molti chilometri. Fu così che in una gelida alba di fine gennaio, Gino il timido, passando sul ciglio della strada, mentre portava il latte al caseificio, non ebbe alcun dubbio quando vide quel corpo riverso nel fossato:
“Che mi venga un colpo…ma quello è Pietro!…” lasciò cadere i secchi di botto e un tiepido fiume bianco prese a scorrere lungo la discesa, sciogliendo il sottile strato di ghiaccio che si era formato nella notte; Gino si chinò e con tutte le sue forze cercò di sollevare il povero Pietro.
“Forse è ubriaco…eppure no, lui non beveva …forse si è sentito male per il freddo…forse è morto…” e fu quest’ultimo pensiero che gli gelò il sangue nelle vene, ancor prima di notare la ferita fra i capelli neri dell’uomo, uno squarcio profondo, coperto di sangue rappreso e fango ghiacciato. Gino si alzò in piedi terrorizzato; quando riuscì a staccare gli occhi da quelli sbarrati di Pietro, si guardò intorno: il silenzio profondo fu interrotto soltanto dal canto di un gallo lontano, al quale rispose l’ululato del cane della canonica. Il prete…sì ecco, doveva correre ad avvisare il prete; la luce era già accesa nella grande cucina a piano terra, dove la perpetua stava accendendo il fuoco nel camino. Gino bussò contro i vetri e la donna spaventata, anziché avvicinarsi alla finestra, scappò urlando su per le scale:
“Don Sergio…Don Sergio! Correte, c’è uno con la faccia da matto che bussa alla finestra…o Santa Madre…venite giù subito!” Dopo pochi minuti il pesante catenaccio del portone si aprì e comparve il prete con l’abito talare ancora mezzo sbottonato.
“ Don Sergio…una disgrazia…- Gino tremava come una foglia e respirava a fatica – c’è un uomo, Pietro il calzolaio, morto stecchito nel fosso.”
Il prete si segnò : “Portami da lui. Lo sapevo che finiva male…lo sapevo! I Comandamenti ci sono per essere rispettati… Hai avvisato qualcuno?”
Gino senza capire il senso di quelle parole fece strada al prete e rispose che aveva pensato solo a cercare aiuto e che ancora non lo sapeva nessuno.
“ Ecco…bravo…tu adesso corri a chiamare il Dottor Monti e non parlarne con nessun altro per ora…poi ti dirò io cosa fare…- quando furono in vista del fossato e del cadavere il vecchio prete vacillò per un attimo ma subito si riprese – cosa aspetti? Vai dal Dottore e digli di correre qui, poi torna a casa e prega, prega tutto il giorno per l’anima di Pietro, capito? Vai…” e con un gesto autoritario spinse via Gino.
Il prete rimase solo, in piedi , impotente coma mai prima d’ora di fronte a quella morte annunciata.
Il cielo si faceva sempre più chiaro e ora numerosi galli salutavano l’alba in tutta la vallata; il cuore di Don Sergio sembrava scoppiargli nel petto.
Lo sapeva…lui lo sapeva, perché Pietro glielo aveva confessato una sera di qualche mese prima, non in chiesa, né inginocchiato nel confessionale ma nella sua bottega , quando era andato a ritirare due vecchie scarpe risuolate.
“Quanto ti devo Pietro?- Pietro aveva posato gli attrezzi in modo quasi solenne, aveva preso la scatola del tabacco e lentamente si era arrotolato una sigaretta.
“ Don Sergio…non mi dovete niente. Però una cosa ve la chiedo e cercate di rispondermi da uomo e non da prete : secondo voi il primo comandamento, il più importante di tutti non dovrebbe mica essere AMATE…? Amate e basta...Tutti gli altri vengono dopo…”
“ Pietro tu stai bestemmiando….ti rendi conto di quello che hai detto?” il prete ricordò di aver preso una sedia e di essersi seduto davanti al calzolaio , che lo guardava dritto negli occhi, come per sfidare lui e tutto quello che rappresentava:
“ Secondo me, che non ho neanche studiato, ma le cose mi vengono dal cuore, in cima alla lista Quello Lassù doveva scrivere PRIMO COMANDAMENTO: AMATE e basta….”- ribadì Pietro, che aveva parlato con rabbia, con gli occhi lucidi di febbre o di qualcosa simile alla follia..
“ Ma state tranquillo padre…il peccatore non è matto abbastanza… a Pietro, il peccatore, gli hanno insegnato che ci sono dei doveri e Pietro sa rinunciare, forse perché gli hanno sempre detto che dev’essere un buon cristiano…”
Pietro si era alzato di scatto, facendo cadere rumorosamente lo sgabello e aveva dato le spalle al prete : “Prendetela come uno sfogo o, se preferite, come una confessione…ma non assolvetemi perché non ho peccato.”
Quando si era girato di nuovo verso di lui, Don Sergio vide che tutta la rabbia di prima era sparita dai suoi occhi , lasciando il posto a una tristezza immensa e ad un’altrettanto pesante rassegnazione.
“Scusate padre, ora devo chiudere. Mia moglie è a letto malata da due settimane e se non ci penso io a darle le medicine e farla mangiare un po’, da sola certo non si aiuta…e nemmeno Dio ci sta aiutando…”
“ Pietro…i comandamenti vanno rispettati, tutti quanti…tutti, capisci? Li ha voluti quel Dio che adesso tu stai offendendo e che non se lo merita, perché ti ama, perché lui stesso è amore…”.
Don Sergio si era portato sulla soglia e Pietro nella penombra gli aveva sussurrato:
“ Padre, non ci verrò più in chiesa.” – e aveva chiuso la porta alle sue spalle, senza lasciargli il tempo di rispondere.
Don Sergio s’inginocchiò accanto al corpo gelato e solo ora capì che le parole di quella sera nella bottega erano state una richiesta d’aiuto, che lui non aveva saputo cogliere, tutto preso com’era dal suo ruolo di pastore della anime, di correttore degli errori umani, lui, che quella volta aveva commesso l’errore più grave, quello di non ascoltare chi , pur bestemmiando, invocava aiuto.
Guardò il volto pallido e coperto di brina del calzolaio e si domandò che specie d’amore poteva essere quello che distrugge un uomo; un amore che uccide non poteva essere amore e allora forse lui non aveva sbagliato del tutto quando aveva rimproverato Pietro : altro che primo comandamento! Non sono mica tutti uguali gli amori…ci sono gli amori umani deboli e fragili e poi c’è l’amore divino, assoluto e perfetto.
Nella mente del vecchio prete si affollavano mille dubbi e a molti si accorse di non saper rispondere; non ne era capace e non voleva nemmeno provarci. Lui, vecchio prete di campagna, che era vissuto ligio ai Comandamenti e aveva predicato sempre affinché fossero da tutti osservati, senza porsi troppe inutili domande ora, sul cadavere di quell’uomo si stava chiedendo dove aveva sbagliato. Istintivamente afferrò la mano irrigidita di Pietro, come per strappare una risposta da chi non poteva più dargliela e fu in quel momento che vide la rosa segnatempo nel pugno chiuso del morto.
“O Signore…e questa…? – provò a forzare quella morsa di ghiaccio ma senza nessun risultato. Si limitò allora ad osservarla più da vicino: i primi raggi del sole, che spuntava dietro la collina, facevano brillare i petali sfumati di rosa di quel piccolo fiore, un barometro, uno di quegli oggetti che diventavano rosa o azzurri a seconda del tempo .E all’improvviso gli fu tutto chiaro, come se tutta la conoscenza del mondo scorresse lì, davanti a lui, sotto lo strato di ghiaccio di quel fossato.
Bianca, la giovane moglie del Dottore, quell’autunno aveva mandato in canonica la serva, pregandolo di recarsi a Villa Monti, perché aveva bisogno di un grosso favore.
Don Sergio salì la collina in un tiepido pomeriggio in cui i boschi cominciavano a tingersi e a dare spettacolo coi loro colori accesi; era la sua stagione preferita e aveva colto di buon grado l’invito della signora Bianca, approfittandone per rilassare la mente e il corpo in mezzo alla tranquilla natura autunnale.
“ Salve regina, mater misericordiae…” – cantava il prete, con l’affanno nella voce,dimenticando qui e là qualche parola – illos tuos misericordes oculos ad nos converte…”
“Buongiorno padre, la signora la sta aspettando in salotto” – la serva ossequiosamente gli fece strada.
Bianca, pallidissima e con gli occhi arrossati di chi aveva pianto a lungo, gli rivolse un sorriso forzato e lo ringraziò per essere arrivato fin lassù:
“Don Sergio, mi scuso tanto per non essere venuta personalmente giù in paese, ma sono reduce da un’influenza che mi sta ancora creando qualche fastidio…” - mentiva e nemmeno tanto bene, perché sembrava stesse sempre sul punto di scoppiare in lacrime; il problema era un altro di sicuro, pensò il prete distrattamente.
“Ecco…senta, io volevo chiederle un favore: avrei bisogno…- e si fermò un istante, come per prendere fiato o forse coraggio, chissà- avrei tanto bisogno che lei venisse qui appena possibile, nella cappella di famiglia, a dire una Messa.”
“ Signora Bianca, è forse l’anniversario della morte di qualcuno? Non mi sembra di ricordare…”
“No. Nessuna ricorrenza. Ne ho bisogno io.” – a quel punto una di quelle lacrime così a stento trattenute scivolò lungo la guancia di Bianca e lei non fece più nulla per fermarla.
Anche in quell’occasione al vecchio prete mancò il coraggio di compiere fino in fondo la sua missione, aprendo il suo cuore a chi vi cercava conforto; al contrario si irrigidì e pensò che era meglio non fare domande e non entrare in fatti privati, fatti di famiglia che lui, sacerdote, non poteva certo comprendere : in fondo gli faceva comodo così, perciò rispose con cortesia che avrebbe cercato sul calendario la prima data utile e gliel’avrebbe comunicata al più presto.
La signora Bianca lo pregò di seguirla nello studio adiacente, in quanto preferiva pagare anticipatamente il suo disturbo; si avvicinò ad uno scrittoio sul quale, in bella vista stava una rosa segnatempo, piccola, di forma delicata, così scintillante che sembrava brillare di luce propria.
Fuori c’era il sole e l’aria era tiepida, eppure il colore del fiore tendeva al rosa, segnale di cattivo tempo e di aria umida; il prete notò questa stranezza, poi ringraziò la signora per la generosa offerta e si accomiatò da Villa Monti. Mentre scendeva verso il paese si accorse che il suo cuore non aveva più la leggerezza di prima e il suo canto divenne una sommessa preghiera:
“Ad te suspiramus gementes et flentes in hac lacrymarum valle…” gli faceva da sottofondo il rumore delle foglie secche sotto ai piedi.
Un rumore diverso, quello di un’auto che si avvicinava, riportò Don Sergio al bordo del fosso. Forse stava arrivando il Dottor Monti e il prete con tutta la forza che aveva strappò quella rosa dalla mano del morto e se la mise in tasca: ora erano anche un pò fatti suoi e della sua coscienza. L’auto, un’elegante Fiat 600 blu, si fermò sul lato della strada e ne scese un austero Dottor Monti, insieme a Gino che, rispettosamente, si tenne in disparte :
“Che succede? Un ubriacone che ci ha lasciato le penne?” – non si abbassò nemmeno a guardare il cadavere , estrasse dalla tasca del cappotto un modulo e ad alta voce stilò il suo referto di morte: infarto acuto del miocardio in soggetto alcol-dipendente.
“Dottore, guardi che di Pietro tutto si può dire tranne che beveva !”- Don Sergio avanzò una timida difesa, peraltro vanificata da quel “tutto si può dire”- e poi dottore, mi scusi , ha visto quella ferita in testa?”
“Quale ferita? – il medico solo allora si chinò e per un attimo il prete vide sul suo volto una smorfia di disprezzo e quasi di soddisfazione – di sicuro ha battuto la testa cadendo su qualche sasso… Padre, lei pensi all’anima del morto che al suo corpo ci penso io. Anzi, per favore vada avanti lei ad avvisare la vedova ; noi carichiamo la salma in macchina e vi raggiungiamo…Gino, mi aiuti!” fu nello stesso tempo un ordine e una brusca esortazione a chiudere la faccenda.
A casa di Pietro Don Sergio trovò la porta aperta, senza alcun catenaccio; aprì e chiamò la vedova. Al piano terra , dalla bottega alla sua destra arrivava un aspro odore di cuoio, mentre dalla cucina, sulla sinistra, nessun aroma di caffè, solo buio e freddo, anche se ormai era mattino. Salì faticosamente la ripida rampa di scale che portava al piano superiore e quando chiamò più forte la vedova, dalla camera chiusa sentì:
“ Pietro, sei tu? Bell’orario per rientrare …che il diavolo ti possa prendere …”
“ Signora Lucia, sono Don Sergio – rispose il prete con la mano sulla maniglia della porta – posso entrare?”
La stanza era in penombra e sapeva di chiuso e di medicinali:
“Ho brutte notizie, Lucia: io non so se se l’è preso il diavolo e non so nemmeno dove sia ora la sua anima…so dov’è il suo corpo, perché l’hanno trovato nel fosso circa un’ora fa…mi dispiace. “
Lucia non versò una sola lacrima, non ebbe un solo gesto di sconforto o di disperazione:
“ Qualche volta tornava a casa all’alba.” – disse, poi scivolò lentamente sotto le coperte e il prete in silenzio uscì; scendendo le scale per un attimo gli parve di sentire un lamento soffocato ma forse era solo il vento.
La rosa nella sua tasca era piccola eppure pesava sulla sua coscienza come un masso; voleva liberarsene, riportarla alla signora Bianca ma questo avrebbe significato davvero aprirle le porte del suo cuore, chiederle di parlare con lui, di sfogarsi, avrebbe dovuto cercare di comprenderla, di averne compassione, nel senso più intimo del termine e condividerne il dolore; meglio mettere l’oggetto in un pacchettino e mandare la perpetua a Villa Monti a restituirlo; se poi la signora Bianca avesse sentito il bisogno di andare in chiesa a confessarsi, allora sì che l’avrebbe trovato al suo posto, disponibile come sempre a cercare di correggere gli errori umani e ad impartire le sue prediche. E così fu che la piccola rosa segnatempo tornò sullo scrittoio e lì rimase per un po’, fino a quando Villa Monti fu chiusa e la famiglia del dottore si trasferì in città. La loro partenza non bastò a far cessare le chiacchiere di paese e per tutta la primavera e tutta l’estate ognuno disse la sua:
“ Ma va là! Hanno detto che gli è venuto un colpo al povero Pietro! Ma se era sano come un pesce…e il dottore lo sapeva bene!”
“ Magari beveva ogni tanto. Soddisfazioni ne aveva poche nella vita…la moglie malata, la gente che non pagava…chissà, forse ogni tanto si faceva un goccetto per star un pò allegro…”
“ La soddisfazione la prendeva a Villa Monti, dai…lo sanno tutti! E lo sapeva anche il dottore…che quella mattina lì faceva finta di niente…!”
A volte le supposizioni intorno al tavolo dell’osteria, o nella bottega del droghiere, diventavano sentenze o certezze:
“ Qualcuno ha visto il dottore in giro quella notte e ha detto che sembrava matto…piangeva e gridava Maledetto…maledetto…io ti ammazzo!”
Con l’arrivo della stagione autunnale anche le voci persero d’intensità e quasi si dileguarono nelle piogge sempre più fredde e nelle prime nevicate, fino al giorno dei morti, quando tutto il paese , entrando nel cimitero, vide spiccare sulla tomba di Pietro una piccola rosa segnatempo così brillante che sembrava sprigionare luce propria ; nessuno si accorse del sorriso di Don Sergio, che spesso, durante la funzione, si girò a guardarla. In seguito, per molti anni a venire, nella giornata dei defunti e solo in quella, il piccolo fiore luccicante comparve misteriosamente, a volte azzurro se il tempo era buono, a volte rosa se era cattivo ; per molti anni a venire, le voci di paese in quella ricorrenza si rianimavano di nuova energia, assumendo via via toni sempre più fiabeschi e avvolti di magia. Nel frattempo il vecchio Don Sergio passò a miglior vita insieme a molte delle anime alle quali per anni aveva insegnato a rispettare i comandamenti; Villa Monti fu venduta e nessuno vide mai più né il dottore né la signora Bianca; Lucia, la vedova, piano piano guarì e si trasferì in un paese a pochi chilometri, presso la sorella e lì si risposò; Gino il timido, ubbidiente alla raccomandazione di Don Sergio e ad un suo personalissimo comandamento privato, non parlò mai con nessuno di quella vicenda, neanche quando gli veniva offerto un bicchier di vino in cambio.
Molte stagioni trascorsero da quell’alba gelida di fine gennaio, molte persone lasciarono il paese, molte nacquero e vissero sempre lì, tramandando di padre in figlio la leggenda della rosa segnatempo, finchè in un’altra epoca, intorno agli anni settanta, accadde che la rosa sulla tomba non comparve più nel giorno dei morti e la gente del paese parlò d’altro.

( Sara Ferraglia, racconto finalista al Premio Fiurlini- L'Aja 2006 )
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Siamo tutti naviganti

Mia figlia è nata la notte di San Lorenzo mentre stelle e desideri si rincorrevano in un magico e antico connubio di sacro e di profano; il nostro cordone ombelicale è stato reciso all’alba, quando ormai calava il sipario sullo spettacolo astrale.
Questa notte, dieci agosto di vent’anni dopo, lei è in volo per un viaggio verso oriente, quasi dall’altra parte del mondo, per la prima volta così lontana e mentre le luci dell’aereo si fanno piccolissime fino a confondersi con le stelle, è un po’ come se il cordone ombelicale venisse reciso un’altra volta. E’ calda e limpida questa notte d’agosto per le vie del centro quasi deserte e lei mi manca. Seguo la stella più luminosa, quella che resiste alla violenza delle luci artificiali e mi ritrovo in Piazzale della Pace : questo è l’ombelico di Parma, perché si trova nel cuore della città e anche perché qui, più che in ogni altro spazio cittadino, mi sento al centro del mondo. Soprattutto la notte in questo luogo austero, può accadere che si intreccino la storia antica della città con la storia e la cultura di gente che viene da paesi lontani, come qualche sera fa, quando la voce struggente di un soprano, è scivolata fuori attraverso gli abbaini del Teatro Regio:


Vissi d'arte, vissi d'amore,
Non feci mai male ad anima viva!
Con man furtiva
Quante miserie conobbi, aiutai.

Il canto s’è posato sul prato morbido del Piazzale, scivolando come una carezza sul capo coperto dal velo di due donne arabe che parlavano a bassa voce con i volti vicini, come nell’atto di consolarsi a vicenda.
Quelle note dolci e malinconiche, hanno interrotto il loro bisbigliare, occhi immensi e neri hanno guardato per un attimo verso il teatro e hanno sorriso al linguaggio universale della musica.
Anche stanotte, come quasi tutte le notti d’estate, i ritmi colorati di percussioni africane fanno da sottofondo alle conversazioni animate delle donne dell’est sedute sotto il monumento al Partigiano. Più lontano, sul prato all’ombra delle arcate del Palazzo della Pilotta, un gruppo di giovani magrebini sembra voler attribuire alla bottiglia della birra un mistico ed illusorio potere.
Piccole e sorridenti, alcune donne orientali sul lato est della Piazza, si scambiano pacchi, come se stessero festeggiando una ricorrenza: sguardi sottili, lievi inchini, una gestualità che è quasi un codice, sconosciuto ai più in questa fetta di mondo che è la mia città.
Parma è piccola eppure stanotte, vista dai bordi della fontana del piazzale, sembra l’universo intero, quello stesso universo dentro il quale si sta immergendo mia figlia.



“ogni uomo con la sua stella
nella notte del Dio che balla e ogni popolo col suo dio
che accompagna tutti i marinaie quell’onda che non smette mai…”

E’ calda e universale anche la musica di Eugenio Bennato che canta col suo gruppo nel Piazzale della Pilotta….
“Andare, andare, simme tutt’egualeaffacciati alle sponde dello stesso maree nisciuno è pirata e nisciuno è emigrantesimme tutte naviganti”.
Mia figlia ora è qui, fra le anime diverse di tutta questa gente e la luna e le stelle sono sempre le stesse sia ad oriente che a occidente.


(Sara Ferraglia - Racconto 2°classificato al concorso "Un pò di stelle in pace"- Parma 2006)
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Due fette di prosciutto


Vivo in città ormai da molti anni e il lavoro e i tanti impegni hanno ridotto notevolmente gli spazi dei ricordi e delle emozioni ma questo è uno strano giorno: mentre il bottegaio affetta due etti di Prosciutto crudo, il profumo che viene dalle fette sottili e rosate, oltre che nel naso, mi entra dritto fino al cuore e raggiunge l’anima, golosa e affamata anch’essa… ma di altro cibo.
” Guardi signora, questo prosciutto è del migliore! Ha più di dodici mesi e si vede! “ lui alza la fetta per mostrarmela e io con la mente torno nella mia valle, come non facevo da anni.
Percorrendo il corso del torrente Parma, dalle porte della città, fin quasi alla sorgente, si nota che sorgono qua e là, lungo le sue sponde , gli edifici per la lavorazione del prosciutto crudo.
In questi luoghi sono nata e non mi sono mai accorta della stranezza di queste costruzioni fino al giorno in cui ospitai un’amica di La Spezia:
“Perché questi palazzi sono così sproporzionati?” – mi fece notare lei per la prima volta.
In effetti sono edifici stretti e lunghi, a più piani, sulle cui pareti si aprono lunghissime file di finestroni dai quali, nelle giornate di sole, calde e secche, entra l’aria buona, quella che scende a valle dai monti del nostro Appennino portando il profumo delle pinete e delle foreste di faggi.
In questi sacrari del buon gusto la coscia del maiale diventa nobile, riposando per almeno dodici mesi dopo un lungo e delicato trattamento dalle origini antiche; in quelle fresche cantine aleggia nell’aria un aroma inconfondibile, lo stesso che ora si sparge nella bottega e mi avvolge di sensazioni forti.
In un attimo mi rivedo adolescente seduta a tavola, una sera, nella cucina di casa. Mio padre, mia madre, i miei fratelli e le mie sorelle tutti alle prese con polenta e salsiccia in umido.
“ Devo farlo per forza. Non posso più continuare questo mestiere. La gente non paga e così non si può andare avanti.”- e quella frase sancì un momento fondamentale per tutta la famiglia.
Mio padre, quarant’anni, meccanico fin da quando era ragazzino, una famiglia di cinque persone a carico, con un atto di “disperazione”, come è solito ricordarlo lui, con un atto di gran coraggio, come amo definirlo io, cambiò mestiere. Affittò l’officina, abbandonò la tuta blu sempre macchiata di grasso e olio scuro, lavò e sfregò le sue mani indurite dai calli fino a farle diventare morbide e bianche, indossò giacca e cravatta e ogni giorno, per mesi, che gli sembrarono interminabili, seguì da vicino il lavoro di Piero, lo zio ricco che si prese a cuore la nostra sorte e lo introdusse in un nuovo mondo, quello del prosciutto.
Piero era stato uno dei pionieri della lavorazione del prosciutto nella valle e in questo campo la sua autorevolezza e il suo naso fino erano riconosciuti da tutti, come lo erano i suoi atteggiamenti burberi e bizzarri che gli valsero l’attribuzione di un nomignolo altisonante, Pieràn.
Pieràn per prima cosa insegnò a mio padre la “spillatura”. Estraeva dal taschino un ago d’osso di cavallo e con questo forava la coscia profumata in cinque punti precisi; dopo ogni forata portava l’osso al naso, inspirava a lungo, a bocca chiusa, chiudeva anche gli occhi e alla fine emetteva il verdetto. Mio padre imparava, anche se fino ad allora l’odore che aveva conosciuto meglio era quello dei gas di scarico e dell’olio che bruciava nei motori. Forse, ripensandoci, Pieràn gli raccontò la storia del Re Prosciutto a rovescio, partendo dalla fine, perché la spillatura si esegue dopo un lungo anno di cure ed attenzioni ma la magia di questo rito servì a far entrare il nuovo mestiere direttamente nel cuore di mio padre.
O forse se imparò così in fretta fu grazie alle levatacce all’alba, quando Pieràn entrava nel nostro cortile con la sua Lancia Fulvia coupè e strombazzando col clacson urlava dal finestrino:
“ Ben mo allora! Dormi ancora? Sta su dal letto, vagabondo! I prosciutti non dormono, sono già svegli! Dai, fai presto!” – il tono e i modi sgradevoli erano in forte contrasto con l’eleganza degli abiti e del portamento.
Mio padre in tutta fretta si preparava per una nuova giornata, magari un pò innervosito dal modo di fare dello zio ma consapevole che contraddirlo o non assecondarlo avrebbe significato perdere una grossa opportunità oltre che la fiducia riposta in lui dal vecchio Maestro.
“ Oggi ci mettiamo il grembiule e andiamo a salare.” – altro momento molto delicato quello, che richiedeva una grande esperienza nel dosare, in base al peso, i granelli cristallini e distribuirli nei punti giusti, in modo tale che la coscia potesse assorbirlo lentamente, mollemente adagiata sui bancali di legno in attesa del suo divenire dolce prelibatezza nel tempo.
Mani esperte e “Maestri salatori” possono contribuire molto alla buona riuscita del prodotto ma il tempo, con il suo scorrere lento nelle immense cantine, come per il buon vino, ha il ruolo fondamentale del giudice che sa premiare chi ha saputo attendere.
Anche mio padre, come le carni che imparava a maneggiare, attendeva il giudizio del tempo e nel frattempo si allontanavano gli spettri del passato e prendevano forma nuove sicurezze, nuove certezze, grazie alla sua fervida intelligenza e alla sua capacità di adattarsi alla nuova situazione. Lo zio Pieràn fu sempre al suo fianco, garante e affettuoso tutore finché la vita gliene concesse la facoltà. Per mio padre, negli anni successivi, il giudizio del tempo fu favorevole: a piccoli passi e con grandi sacrifici ebbe modo di guadagnare per sé e per la sua famiglia quella vita agiata e tranquilla, che per anni gli era sembrata solo un sogno
“ Signora mi ha detto due etti? ”- il bottegaio nel frattempo continua ad affettare quello che da molti anni in casa nostra è diventato il protagonista assoluto di antipasti, cene e spuntini vari, il Re Prosciutto, come lo chiamiamo noi, attribuendogli una nobiltà e un’importanza , che solo noi possiamo cogliere nel suo più intimo significato.
“ Faccia tre etti, grazie…” – rispondo e formo sul telefono cellulare il numero di casa dei miei genitori.
“ Ciao…cosa fate stasera? Siete impegnati? Bene…allora vi aspetto a cena…no, nessun disturbo…ho voglia di stare un po’ con voi…solo un po’ di pasta e…due fette di prosciutto! ”

( Sara Ferraglia )

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