mercoledì 12 dicembre 2007

Un Natale d'incanto.

Un Natale d’incanto.

“Che regalo vuoi zia Titti per Natale?” – lei è seduta come sempre accanto al termosifone, nella piccola cucina dove ancora troneggia il vecchio camino da anni in disuso.
Mi osserva col suo sguardo vispo e curioso, sul quale nemmeno la fitta e intricata ragnatela di rughe profonde è riuscita ad avere il sopravvento: gli occhi color nocciola risplendono giovani e pieni di vita nel suo volto scarno di novantenne.
“ Se mi fa male? Si che mi fa male la schiena…per forza con questo caldo moderno! Quando accendevo il fuoco mi sedevo due minuti lì davanti al camino e mi passava tutto…ahia…ahimè “- se zia Titti ha la vista e lo sguardo di una ventenne non si può certo dire che sia stata altrettanto fortunata con l’udito.
“ No zia, ti ho chiesto che regalo ti piacerebbe per Natale…”- credo che l’eco della mia domanda sia giunto fin sulla cima della collina, tanto ho alzato la voce ma non risponderà nessuno perché quella di zia Titti è l’unica casa nel raggio di tre chilometri e tutt’intorno ci sono soltanto boschi e campi, che la nevicata della notte ha reso immacolati e ancor più silenziosi.
“Non gridare… ho capito !- e per un attimo fa la faccia offesa - ascolta, sai cosa mi piacerebbe? Mi piacerebbe andare in città a vedere i negozi illuminati con tutti gli addobbi di Natale…-
Mentre mi risponde si liscia i capelli candidi e radi, raccolti a crocchia sulla nuca, nel tenero tentativo di apparire più ordinata e assume il tono piagnucoloso e imbronciato di una bambina di cinque anni:
“Nessuno mi ha mai portata a vederli, neanche quando ero più giovane…!”
“Zia, ma che dici? Da giovane eri tu che non volevi mai lasciare “Il Pianello”- così si chiamava la sperduta località dove abitava da sempre- ed ora che fai così fatica a camminare e a muoverti vorresti andare giù in città? Non credi che i tuoi siano solo capricci?”
Sto riordinando la cucina e mi fermo di colpo perché la richiesta della Titti mi ha stupita.
“ Nàni – lei mi chiama sempre così - perché mi hai chiesto che regalo voglio per Natale…? Se hai già in mente tutto te, potevi anche tacere…”
Non voglio certo mettermi a discutere con Titti ma voglio capire fino a che punto la zia vuole davvero che la porti in città con questo freddo e con la strada quasi impraticabile.
Una volta sola nella sua lunga vita zia Titti andò in città e fu in occasione di un ricovero urgente per quella che, sulle prime, sembrò una grave malattia del fegato ma che poi risultò essere una banale intossicazione alimentare.
“ Carina, senti – mi sussurrò piano all’orecchio quella volta, mentre stavo seduta di fianco al suo letto – non dirlo a nessuno, neanche al signor dottore: io ho mangiato cinque pacchetti di patatine fritte, perchè sono molto più buone di quelle che faccio io, lo sai?”- quell’unica volta non ebbe certo il tempo né la voglia di visitare le vie del centro.
“ Zia, perchè desideri tanto che ti porti in città per Natale? Non è per vedere le vetrine vero?” – ora mi siedo vicino a lei e l’abbraccio e la sua mano ossuta e tremante prende la mia e stringe forte :
“ No, cara…però mi piacerebbe proprio tanto, perché non ho più tempo...e devo fare una cosa…”
In quel momento sento che non posso fare a meno di accontentarla, perché la vita glielo deve e perché c’è una forza misteriosa in quel desiderio, che nasce dalla sua anima candida come la neve che brilla là fuori.
E’ il pomeriggio della Vigilia quando le faccio indossare il cappottino elegante,quello con il collo di astrakan e il cappellino di feltro, che lei tiene, come una preziosa reliquia, in una scatola nell’armadio. Velocemente Titti, girandomi le spalle come se non volesse farsi vedere, nasconde qualcosa nella borsetta; riesco solo a intuire che si tratta di un piccolo oggetto avvolto in un carta dorata sottile. Nell’aria aleggia un leggero odore di canfora e di Violetta di Parma, il suo profumo preferito.
Tutto avviene come in una scena al rallentatore: Titti a piccolissimi strascicati passi si avvicina all’auto, faticosamente riesce ad accomodarsi sul sedile e finalmente partiamo.
“ Và piano vè nàni… lo sai che io ho paura…”- e durante i primi dieci minuti del viaggio si tiene al sedile con entrambe le mani e guarda fisso davanti a sé la strada, che per fortuna lo spazzaneve ha reso praticabile.
La città dista una ventina di chilometri dal “Pianello” ma il nostro viaggio sembra interminabile ; ora zia Titti è più rilassata ed è completamente stregata dal paesaggio che ci scorre lentamente intorno e affascinata dal numero delle automobili che incontriamo.
“ Sai quante ne ho contate solo in questo pezzo di strada? Cinquanta! Chissà in tutto quante ce ne sono e tutti si possono spostare e vedere il mondo ! L’Adele non ha mica ragione quando dice che una volta era tutto meglio…non c’erano tutte queste comodità, anzi non c’era niente!“ - l’Adele era la sua vecchia amica, che aveva abitato fino a pochi anni prima nel casolare più vicino al Pianello e che, al contrario di Titti, aveva una mentalità rigida e chiusa a qualsiasi cambiamento.
“ Ecco zia, siamo alle porte della città…hai visto che belli gli alberi di Natale sui balconi e nei giardini?”
Lei non risponde, guarda fuori dal finestrino, piccola e fragile col suo cappellino, che le sta un po’ largo e sorride scuotendo il capo; chissà quali sono ora i suoi pensieri e chissà dov’è il suo cuore.
“ Ora prendiamo questa via che ci porta dritti in centro, dove ci sono i negozi più belli e le vetrine più decorate…ti va bene o vuoi vedere qualcosa in particolare Titti? “- rallento in attesa di una sua risposta.
“Vorrei andare in viale Pacini al numero uno…per favore…” – la sua voce si è fatta all’improvviso tremante per l’emozione.
“Viale Pacini? Ma zia, lì c’è solo il cimitero...sei sicura?”- domanda inutile perché sento che Titti non ha dubbi: sa esattamente cosa vuole fare ed ora anch’io comincio ad intuire il vero motivo di questo suo viaggio.
Lei non risponde e guardando sempre fisso davanti a sé allunga una mano sul mio ginocchio e delicatamente batte due volte e questo è il suo “si”.
Svolto verso il viale, che in questo pomeriggio freddo e bigio è deserto come se la frenesia e l’euforia della festa imminente non avessero toccato questo luogo.
Parcheggio vicino al cancello principale; Titti scende, mi prende sottobraccio e ci incamminiamo.
Ora è lei che guida i nostri passi perché, in realtà, io non so dove stiamo andando e la seguo in silenzio come presa dall’incanto di una magica atmosfera fatta di mistero e di curiosità .
Ora cammina più speditamente,come se una nuova energia le avesse rinvigorito le gambe stanche e non ha dubbi nemmeno quando ci troviamo in un intricato crocevia di vialetti fiancheggiati da piccole siepi di mirto profumato: Titti svolta a sinistra e poi a destra e poi ancora a sinistra senza mai mostrare segni d’incertezza, fino ad arrivare davanti a una lapide di pietra annerita.
“ Ecco nanì sono arrivata…” - apre la borsetta e prende il pacchettino di carta dorata, mi chiede di aiutarla ad aprirlo ed estrae una piccola rosa rossa di porcellana; piegando la schiena come da anni non le vedevo fare, Titti si china sulla tomba e posa la rosa davanti alla fotografia di un giovane uomo dall’aspetto fiero e dai folti baffi scuri.
DECAROLI ALFREDO DI ANNI 23 CADUTO VALOROSAMENTE IN BATTAGLIA PER DIFENDERE LA LIBERTA’. Leggo ed ora ricordo : Zia Titti qualche volta, quando le chiedevo perchè non si fosse mai sposata, mi aveva accennato di un amore perduto, che mai più avrebbe potuto provare per qualcun altro. Ed ora capivo : Alfredo era il suo grande amore di tutta una vita e da sempre zia Titti sapeva dov’era sepolto.
“Perché in tutti questi anni non mi hai mai chiesto di portarti qui zia? “
“Perché non era necessario. Lui era sempre dentro di me, nel mio cuore…ma adesso sono vecchia e quando morirò ho paura che il suo ricordo morirà con me…però questa rosa rimarrà sempre qui vero? “ – mi guarda con la stessa espressione che hanno i bambini quando vogliono credere alla fata buona delle favole.
“ Certo Titti, rimarrà sempre qui e io verrò ogni anno, la Vigilia di Natale ad assicurarmi che ci sia ancora…te lo prometto.”
Titti in questo momento ha lo sguardo triste ma è solo questione di un attimo; chiude la borsetta e si dà un’aggiustatina al cappello.
“ Brava…dai adesso andiamo che comincia a nevicare e fa tanto freddo…- si stringe al mio braccio e torniamo lentamente verso l’uscita.
Il cielo è bianco, gonfio di neve e qualche fiocco volteggia già nell’aria e si posa sulle tombe ai lati del sentiero, sulle foglie rosse di una miriade di Stelle di Natale , portate qui dal ricordo di qualcuno.
Ci voltiamo un attimo verso la tomba di Alfredo, spoglia e nuda, sulla quale ora spicca la macchia rossa di una piccola rosa sbocciata fuori stagione.
Tornando verso casa percorriamo la via principale, sfavillante di luci e di colori e brulicante di gente frettolosa e carica di pacchi e borse della spesa.
“ Ma dove vanno tutti così di corsa? Sai nàni…i negozi sono belli ma il Natale mi piace di più passarlo al Pianello, qui c’è troppa confusione e mi gira un po’ la testa…- è stanca zia Titti, il suo respiro è affannoso, si appoggia al sedile e chiude gli occhi.
Ed io guido tranquillamente, nonostante la nevicata si stia sempre più infittendo, e penso che questa strana Vigilia di Natale è stato un dono prezioso, una dolce lezione d’amore che zia Titti mi ha regalato; come se lei stesse leggendo nei miei pensieri, senza aprire gli occhi sussurra:
“Ti ringrazio tanto nàni…mi hai fatto un gran regalo , perché questo è stato il giorno più bello della mia vita…quest’anno passerò un Natale d’incanto.”


Sara Ferraglia

mercoledì 5 dicembre 2007

Il profumo della violetta nell'aria

Il profumo della violetta nell’aria

Quand’ero una ragazzina di quindici anni non mi piaceva il mio corpo secco e acerbo e nemmeno il mio modo di camminare, sempre un pò con le spalle curve, come per nascondere quel piccolo seno che stava spuntando, timido come me. Una volta la settimana, al pomeriggio, frequentavo il corso di pianoforte e, abitando fuori città, in quell’occasione andavo a pranzo a casa della zia Lina.
Eravamo ancora nell’ingresso che lei mi diceva, battendomi le spalle : - Stai dritta! Vuoi diventare una bella signorina o una brutta paperina?- che poi era proprio come mi sentivo io.
Mia zia Lina a settant’anni suonati aveva ancora uno splendido corpo e un portamento da “signora”, nonostante nella vita avesse fatto sempre lavori molto umili e avesse indossato, negli anni più duri, cappotti rivoltati e scarpe risuolate più volte.
“Me lo dici come fai a mantenerti così in forma?” – le chiedevo ogni volta che andavo a casa sua.
Lei si lisciava i fianchi con orgoglio, assumeva una posa plastica da diva del cinema muto e sorseggiando un goccio di Vov, denso e corposo, fatto in casa con le sue mani, rispondeva:
“ E’ la musica, è sempre stata la musica a farmi rimanere giovane e bella ” - si alzava, apriva un mobiletto al cui interno stava un vecchio giradischi e posava sul piatto un altrettanto vecchio vinile. Nella stanza si diffondevano la forza, la potenza e il maestoso romanticismo di un giovane Toscanini e la voce angelica di una splendida Renata Tebaldi
“ Mi chiamano Mimì ma il mio nome è Lucia…” - cantavano insieme la zia e la Tebaldi.
La zia abitava in Oltretorrente, la zona povera della vecchia Parma, storicamente contrapposta alla Parma borghese e ricca dall’altra parte del torrente. Qui, in questi crocevia di borghi stretti e colorati palpitava il cuore musicale della città e non era insolito passare davanti alla Corale Verdi e lasciarsi rapire la mente da un pianoforte solitario o dai solfeggi di un giovane tenore alle prime armi.
“ Vieni qui, affacciati alla finestra e guarda …” – ci appoggiavamo al davanzale coi gomiti a goderci tiepide giornate primaverili, quando ancora si sentiva nell’aria il profumo della violetta appena sbocciata nei prati del Parco Ducale, a pochi metri da noi.
“ Ecco, lì a destra, nella casa di fianco è nato Arturo. La mia amica Dirce, pover’anima, mi diceva sempre che lui non piangeva mica come un neonato normale, lui gorgheggiava! Sai, mi ha sempre fatto impressione abitare così vicino a questo luogo sacro!” - chiudeva gli occhi e volava lontano, sopra i tetti dell’Oltretorrente, dove io non riuscivo a seguirla.
Mi sporgevo a guardare il numero 13 di Borgo Tanzi e non capivo tutta quest’ammirazione per quella fetta di casa, così vecchia e con i muri scrostati.
“ Suo padre faceva il sarto e forse i soldi in tasca erano pochi ma l’anima cara mia! Sapessi che anima ricca che aveva Arturo, ricca e grande come tutto l’universo, come la musica che lui riusciva a far scaturire dall’orchestra…” - e di nuovo la zia si esaltava e rientrando nella stanza fresca ricominciava a cantare compiendo ampi gesti con le mani,ai quali spesso faceva seguito un urlo di rabbia :
“Ah! Maledet al dievel! Al sofrit…! “- perché nel frattempo, cantando e ballando, la zia aveva lasciato che il sugo per la pasta, il soffritto, divenisse un intruglio carbonizzato.
“ Vè che roba! … Fa niente, nàni, vorrà dire che mangeremo una bella pasta in bianco, con tanto burro fresco e tanto parmigiano, va bene?”-
Quasi sempre io mi impigliavo nelle tende di pizzo che svolazzavano al vento primaverile e, quando riuscivo a liberarmi, goffa e maldestra com’ero, correvo in cucina a tranquillizzare la zia.
Più tardi, verso le una, arrivava mia cugina, che studiava arpa al conservatorio.
Stefania, occhi azzurri, fianchi morbidi, vita stretta e un seno prosperoso, il tutto fasciato in un tubino nero che scendeva appena sotto il ginocchio, era il classico prototipo della bellezza femminile di quegli anni. Portava i capelli raccolti e cotonati sul capo, secondo la moda dell’epoca e una sottilissima riga di eye-liner evidenziava il suo sguardo da cerbiatta.
“ Ehilà, oggi abbiamo ospiti! “ – buttava una carpetta di spartiti sgualciti sulla poltrona e mi dava un bacio sonoro su una guancia lasciandovi un cuore di rossetto fucsia. – “Mamma cosa si mangia?” – e allungava il collo in cucina.
“Vissi d’arte, vissi d’amore …”- rispose cantando mia zia – “ per te non vanno mica bene queste parole! Tu vivresti di tortelli d’erbetta e cappelletti in brodo, altrochè !”-
Stefania mi passò vicino per andare in camera sua a cambiarsi d’abito e mi fece l’occhiolino.
“ Sarà anche vero che mangio molto ma tu mi trovi grassa? L’unica cosa grassa che ho sono i polpastrelli delle dita a forza di suonare l’arpa giorno e notte! – e piroettando sui tacchi a spillo, con la grazia di una ballerina del Falstaff spariva nella sua stanza.
I profumo del sugo per la pasta, quel giorno irrimediabilmente bruciato, il canto di mia zia e i dolci arpeggi di mia cugina si fondevano in quella stanza e mi avvolgevano in una meravigliosa armonia.
Musica e gusto, connubio così stretto in queste nostre terre, da allora rappresentano per me condizioni ideali e quasi indispensabili per godere in pieno della vita.
Pranzavamo in quella stretta cucina e mia zia raccontava di anni passati, di umiliazioni e sacrifici immensi e qualche volta, al ricordo, i suoi occhi si riempivano di lacrime sotto gli occhiali dalle spesse lenti, come se ancora stesse vivendo l’angoscia di quei tempi. Era questione di un attimo, un solo istante e poi il suo busto si raddrizzava, il suo sguardo tornava fiero e di nuovo sorrideva e si sistemava la “messinpiega” col modo lezioso di una ragazzina. Nel suo modo di vivere la povertà di quegli anni e poi in seguito, in tutta la sua vita, spiccavano in lei la sua dignità, il suo orgoglio, il suo voler apparire sempre “la signora Lina” agli occhi dei vicini e dei commercianti del quartiere; per questo, pur essendoci in Borgo Santo Spirito, a pochi passi da casa sua, un negozio d’alimentari, a fine mese, quando il borsellino era vuoto, lei saliva sulla sella della sua bicicletta ed attraversava la città, fino in fondo a via Bixio, dove nessuno la conosceva e dove aveva trovato un negozio che le faceva credito.
E raccontava del prestito ottenuto per comprare l’arpa per Stefania…
“… e allora, nanì, tu non puoi immaginare la mia felicità quando riuscimmo a portare a casa quell’arpa, uno strumento dell’ottocento, usato ma ancora in ottimo stato vè…” – la zia si alzò per riordinare la cucina e Stefania si guardò i calli sui polpastrelli.
“Anche le mie mani sembrano dell’ottocento, guarda! “– seguiva sua madre e, abbracciandola da dietro, le slacciava il grembiule per prendere il suo posto al lavello. Tutto questo accadeva molto tempo fa.
E in quel quartiere popolare dell’ Oltretorrente, in quella stanza dal profumo antico di onestà, di dignità e di nobiltà d’animo ora che sono diventata “una bella signorina” dalla schiena dritta, ascolto il suo respiro che si fa sempre più lieve. E’ il tempo del riposo e dell’ascolto.
Stefania mi ha detto che ormai da più di un mese non si alza dal letto. Ha voluto che venisse una parrucchiera ieri mattina per dare “una rinfrescata” alla messinpiega e per sistemare i pochi capelli che le sono rimasti; ha voluto lo smalto alle unghie e gli orecchini con l’acquamarina perché “Nanì, lo sai, mi viene a trovare tanta gente!” – dice quasi sussurrando. Sul comodino accanto al letto c’è un flaconcino di Violetta di Parma, il suo profumo preferito, che ha resistito nel tempo alle lusinghe della moda e il cui aroma delicato emana da tutta la sua biancheria. “Guarda come sono diventata ! Guarda che brutte gambe piene di lividi…coprimi bene, va là… “- con una lentezza esasperante ed una fatica immensa cerca di arrivare al lembo del lenzuolo.
“Dai zia, lo sai che hai ancora due bellissime gambe! Chissà quanti ammiratori avevi …e quando guarirai ce lo facciamo un ballo?” – l’aiuto a coprirsi cercando di non vedere il suo corpo devastato dal male.
“ Bella figlia dell’amore…schiavo son dei vezzi tuoi…con un detto sol tu puoi…” - la sua risposta è in questo canto ad occhi chiusi, con lunghe pause fra una frase e l’altra e con la voce che si fa sempre più soffio nel vento.
Stefania , seduta accanto alla madre, la guarda e sorride; lentamente si avvicina con la bocca al suo orecchio, le prende la mano scarna e continua quel canto struggente, quella frase che la zia non ha la forza di terminare:
“…le mie pene…le mie pene consolar…”
Un colpo di vento più forte degli altri fa gonfiare le tende di pizzo, spalanca la finestra, scivola sulle corde dell’arpa, che da mesi tace, le fa vibrare ed entra nella stanza della zia, accarezzandole dolcemente la fronte…
“…le mie pene…le mie pene consolar…”


( Sara Ferraglia )